IL DEFUNTO, UN RACCONTO DELLA SCRITTRICE TIJANA M. DJERKOVIC


IL DEFUNTO, racconto della scrittrice giornalista e traduttrice serba TIJANA M. DJERKOVIC, fa parte della raccolta Il Piccolo vestito nero, pubblicato in originale serbo nell’Edizione “L’onda” dalla Casa editrice “Albatros plus” di Belgrado nel 2009. La presente traduzione è a cura della stessa Djerkovic.

Buona lettura!

IL DEFUNTO

a Mihailo

Lo scienziato russo, Kostantin Korotkov,

afferma di essere riuscito a fotografare

l’anima al momento della morte

e sostiene che la parte spirituale dell’uomo

rimane ancora qualche tempo

intorno al corpo…”

Moskovskij Komsomolets

Mosca

Ne conoscevo un paio. Uno di loro era un mio compagno di classe. Chi se lo scorda; mi aveva colpito la notizia della sua morte, parecchio. Fino al punto che, per un pò di tempo avevo perfino smesso di fumare. Suo padre, sentinella pietrificata, stava in piedi accanto alla cassa da morto del figlio, immobile come una cariatide nera della disgrazia, porgeva la mano di ghiaccio accettando le condoglianze, senza muovere un muscolo sul suo viso da robot, fissando lo sguardo per terra. La terra. Quando mi vide avvicinarmi a lui, anch’io stesso parte di quella grave cinta umana di terrore, incredulità, confusione, tristezza, angoscia – si! angoscia; di fronte alla morte tutti ci sentiamo inadeguati, frustrati, inadatti al grande compito, come se fossimo andati al lavoro vestiti di sole mutande, o fossimo corsi sulla neve, scalzi – che muta, trascinando i passi pesanti sul marmo liso della cappella, si stringeva intorno al feretro, cedette. Mi strinse forte a sè, non in un abbraccio ma in uno spasmo, e pianse. Non avevo forza per consolarlo. Nè intenzione. Piansi con lui. Non c’era consolazione, lui lo sapeva meglio di me. Ero più che un parente stretto di suo figlio, ero amico di sempre, dalla prima infanzia, depositario prezioso dei nostri ricordi comuni. Una parte della vita vissuta dal suo unico figlio, continuava dentro di me, insieme a me. Sulla mia spalla poteva liberamente lasciarsi alla disperazione, singhiozzare. Piangevo anch’io. Al diavolo la regola dell’ educazione che ci impongono da quando si è piccoli – l’uomo che piange non è abbastanza uomo! Questa specie di molestia in famiglia non è stata contemplata da alcuno studio importante, relativo ai comportamenti nell’ambito dell’unità primaria della società. Forse perchè resiste solo qui, da noi, dove dalla notte dei tempi, sono i padri a sotterrare i figli morti, anzichè al contrario, stringendo i denti fino alla rottura – per non piangere.

Lo scienzato russo, il fisico Konstantin K., da molti anni sostiene di aver fotografato l’anima nell’esatto momento della morte. Questa affermazione è stata riportata dalla stampa mondiale; ne ho letto qualcosa. Il sanpietroburghese dice che lo spirito di ogni essere umano rimane nelle immediate vicianze del proprio bozzolo morto da un minimo di otto a un massimo di quarant’otto ore. Si sbaglia. Le mie, come le chiama l’egregio Kostja, oscillazioni fosforescenti del campo elettromagnetico già da settanta ore permangono vicino al mio corpo morto.

Fino ai miei quarant’anni sono stato a diversi funerali di persone a me care, di qualche partner di lavoro, del vicino di casa, dei due parenti, uno stretto, l’altro quasi sconosciuto; ho assistito perfino al funerale di Tito – ci prelevarono direttamente a scuola e fummo accompagnati dagli insegnanti; sembrava, diociguardi!, stessero portando dei condannati al patibolo, che tristezza! e pianti sommessi; c’era però chi in attesa di passare vicino al feretro, si scambiava le biglie di vetro, chi le figurine; in seguito fu compilato il Registro di attività e nell’apposita casella fu scritto che quel triste giorno, non solo per la nazione ma anche per il mondo intero, si era tenuta l’ora di educazione pratica con il titolo La morte del Capo.

Visto che mi rimangono sole due ore, capisci che non rinuncerei per nessuna ragione al mondo a partecipare alle mie esequie.

Ehi! Kostja, caro mio, sono pochi quelli che hanno creduto negli esiti della tua complessa e greve ricerca lunga interminabili venticinque anni.

Figurati, ha fotografato l’anima! Io, vedi, caro mio, ti credo, e capisco quanto è stato difficoltoso e pesante il tuo lavoro. Molti non hanno un’anima; oppure se ce l’hanno è così spicciola e flebile che ti era impossibile perfino intuirla, e ancor di meno fotografarla. Ti credo, sai, anche perchè io stesso sono passato al di là, eppure guarda caso, sono ancora trattenuto al di quà.

Sono rimasto terrorizzato quando si è avvicinata. Anche se non fossi stato da solo, e comunque nella morte si è sempre soli, avrei avuto paura. Era invano cercare di darsi coraggio di fronte a chi era infinitamente più potente. Eppure la paura è durata solo un singolo istante, troppo breve per poterla chiamare paura. Si trattava più che di altro, di un disperato sussulto di sorpresa. Se mi fosse stato concesso un attimo di tempo in più le avrei detto: e tu che ci fai qui? Avrei azzardato un gesto di disperata, iraconda disapprovazione, già che non ci fu il tempo per formulare un lascito di parole e congedo a quelli che amavo.

Si è addormentato, dissero, e non si è più svegliato. Una bella morte. Che idiozia! non esiste una morte bella. Mentre cercavano di farmi riacciuffare la vita, premendomi selvaggiamente la gabbia toracica, – che, se fossi stato vivo, avrei urlato dal dolore e gli avrei sferrato un bel calcio -, in cerca di un minimo, anche il più fievole battito del mio cuore, devo ammettere – speravo ancora. Cercai anch’io di darmi da fare, cercai di mandare un segno straziante del mio esserci ancora, anche se sapevo che dall’Incontro erano passate già delle ore, ore. Invano. La barriera delle mie vene morte, del mio cuore ammutolito, delle mie pulsazioni interrotte di scatto, si era già irrigidita e trasformata in pietra. Non avevo forze per scardinarla; non riuscii ad evadere fuori di me stesso; tzak! la trappola si era chiusa. Rimasi freddo.

Alla mia famiglia diranno che ero come uno che avesse dormito con la finestra aperta. Se ci penso bene, la spiegazione era azzeccata. Vivere nel mio paese era come condurre la propria esistenza su una radura costantemente flagellata dal vento. Senza tregua. Avrei potuto andarmene via da qui tante volte e per sempre. Ero ricercato ovunque per la mia perizia professionale. E l’avevo anche fatto, più volte. Ma un pensiero straziante, come una goccia di veleno, non mi lasciava in pace nè nel deserto libico, sotto il sole cocente dell’oriente, nè nei bistrò parigini né sulle pendici verde scuro dell’Etna. Il pensiero del non-ritorno.

Ora questo pensiero è diventato il mio destino.

Poi, mi hanno sbattuto in faccia il pesante coperchio di quercia. Pensai: ecco ci siamo. Dunque è questa. Non sentivo dolore, non avevo freddo, semplicemente io non ero più. La paura, lo sgomento – svaniti; neanche una traccia di collera. Non c’era più nulla, solo il dispiacere di essere rimasto senza vita. La nostalgia, ecco cosa provavo, una struggente nostalgia della mia vita.

La propria morte sarebbe un esperienza di valore infinito, se fosse capace di insegnare qualcosa, ma Lei, maledizione! arriva sempre alla fine, alla conclusione di tutte le danze, alla chiusura di tutti i giochi, quando tutto, proprio tutto, è stato già deciso. La morte di altri è poco utile. Quando mai ha insegnato qualcosa a qualcuno.

Ecco perchè mi fa ridere da morire, è il caso di dirlo, l’immagine di quel mio ex amico, quel signore là dai capelli radi e di grossa corporatura, fasciato da un impermeabile beige chiaro, che sta tutto mogio mogio nell’angoletto della cappella, e non vede l’ora di sgattaiolare fuori; non perchè gli faccia male lo strazio della mia famiglia, devastata nell’ attimo della notizia, no; e neanche perchè la confezione quercina che mi è stata cucita addosso per l’occasione, sposa così male con il mio corpo ancora giovane e aitante. Ma perchè ha paura. E’ terrorizzato dal pensiero che anche lui possa morire. Trema. E’ stato sempre un gran vigliacco. L’unica posizione sociale per la quale non dovrà lottare, camminando, come ha sempre fatto, su tutto quanto gli si trovi davanti, è quello che occupo io in questo momento – la posizione del defunto. Gli verrà imposta naturalmente, senza che egli debba muovere un dito, e non potrà rifutarla giustificandosi con altri impegni. Questo lo fa innorridire. Sta giocando con il colletto del suo trenchcoat alzandolo di continuo con il fare nervoso di chi è abituato a comandare; vuole nascondervi la faccia come se fosse un agente segreto in servizio. Si maschera per non farsi riconoscere da Lei, dietro il colletto biricchino, che si abbassa sempre come se volesse prenderlo in giro – tatoooo-tatoooo,- scoprendo la sua tremante mascella impaurita. Che cosa darebbe se potesse conoscere il proprio destino. Il mio è ormai certo. Lui non lo sa, ma neanche il Visir è riuscito ad eluderla scappando a Samarkanda. Mi meraviglio che nessuno avesse insegnato al mio ex amico che ai funerali non si va vestiti di impermeabile beige chiaro, almeno per motivi di decenza, se non altro. Forse l’aveva messo per scacciare un eventuale malocchio, e i funerali sono roba funesta, non si sa mai, o chi lo sa, per la grandezza del suo colletto. Sciocco!

Se fossi sopravvissuto gioirei per questa bella giornata di sole, e in barba a tutto, lascerei perdere tutti gli appuntamenti di lavoro e tutti gli impegni improrogabili, le telefonate urgenti e le tabelle delle entrate e uscite, trascurerei le pubbliche relazioni, ma anche quelle segrete, le amicizie finte e le conoscenze superficiali che avrebbero potuto, forse, essermi utili nel futuro.

Solo la vita è improrogabile.

Prenderei per mano mio figlio e lo porterei in gita fuori città per osservare in silenzio i primi bucaneve e le minuscole testine delle violette mentre sbucano delicate e decise dalla grigia e ghiacciata scorza del suolo invernale, a conferma dell’inevitabilità del susseguirsi delle stagioni. Avremmo ascoltato insieme il canto di un merlo di pece, con un becco arancione da urlo, e avremmo respirato l’aria gelida odorante di erbe ribelli e dell’umidità della terra. Gli avrei insegnato a toccare gli alberi, i migliori esseri mai partoriti dalla natura; di sentirne il calore e ascoltare lo scorrere della linfa; di intuire lo stiracchiarsi al risveglio delle minuscole e delicate gemme dentro i loro corpi grossi e rozzi. Gli avrei insegnato ad abbracciare i tronchi ruvidi e decifrare il linguaggio dei solchi sulla loro corteccia, per imparare in anticipo l’alfabeto delle emozioni e delle esperienze necessario per saper leggere le mappe tracciate sui volti e che gli sarebbe stato prezioso per affrontare la giungla umana che, vorace, già lo attende. Gli avrei raccontato le storie sui miei avi, che a sua volta mi furono raccontate da mio padre, le stesse che credevo avessi dimenticato. Invece le ho qui nel mio petto. Chiuse. Ci saremmo seduti sulla panchina e avrei tirato fuori dalla borsa due panini, per mangiare insieme. E questa sarebbe stata la mensa più ricca, il pasto più prelibato che la mia bocca avesse assaporato dalla fine della mia infanzia; in mezzo alle due fette di pane odoroso ci sarebbero stati spalmati gli strati caldi di amore, di complicità, di attaccamento. E nient’altro. Oltre a questo, noi due, non avremmo bisogno di null’altro.

Purtroppo, le morti altrui non furono d’insegnamento neanche a me. Oggi non posso allontanarmi da qui. Ho un impegno indeclinabile: è il mio funerale. Mio figlio è rimasto a casa; lo spettacolo del dolore non è adatto ai bambini. Ed è giusto che sia così.

Una mia giovane parente mi ha biasimato per essere morto proprio nel giorno del suo compleanno. La sua perizia negli affari umani è insufficiente per farle comprendere che ogni giorno può essere giusto per nascere e per morire. L’espressione del dispiacere sul suo bel viso è sincera, una tale ombra sulla ricorrenza della propria nascita è effettivamente sgradevole! Comunque, niente da dire, le dispiace anche per me.

Non credo che andrò a finire in paradiso. Non perchè ero un grande peccatore. Ero, semplicemente, né meglio né peggio della maggior parte di quelli che conoscevo. Non lo credo, perchè in paradiso, o, se vogliamo, all’ inferno, va chi è convinto dell’esistenza di un paradiso o di un inferno. Negli ultimi anni della vita mi sono impegnato con grande trasporto a seguire tutte le tradizioni cristiane ortodosse, e anche se ce l’ho messa tutta, la mia fede è rimasta pari allo zero. Senza voler offendere nessuno o provocare chicchessia, dico che la fede è un riflesso condizionato, una categoria acquisita, al contrario del dubbio che è parte integrante del nostro essere. Il dubbio non ha bisogno di essere indotto, alimentato, coltivato dentro di noi. Esso resiste senza una cura particolare come un cactus succoso pieno di spine, deciso a sopravvivere ad ogni intemperia, si autoalimenta senza bisogno della nostra attiva partecipazione. Non mi avventurerò nelle speculazioni sulla religione, credo che sia troppo tardi per poter cambiare qualcosa.

Ero, finchè ero, un uomo tecnocratico, un ingegnere, il fautore della realtà esatta, adoratore della scienza. Più del paradiso o dell’inferno, sarei interessato a capire con quali strumenti Kostantin K. sarebbe riuscito a fotografare lo spirito umano. Egli puntualizza perfino che più la morte è improvvisa – e la mia lo è stata, altroché; addormentarmi sano e vigoroso all’età di quarant’anni e ritrovarmi al risveglio come una nuvola a fluttuare sopra il mio corpo morto, più impovvisa di così, non c’è niente – e violenta – morire così all’improvviso, lasciando il lavoro incompiuto, le parole strozzate a metà, un figlio piccolo, e tutto questo contro la mia volontà e senza alcuna colpa, non è una violenza? Non credo sia indispensabile essere assassinati per dire che si è morti di una morte violenta – dunque, più la morte è improvvisa e violenta più il corpo sottile rappresentato dalle onde elettromagnetiche fosforescenti resta vicino al corpo. Ed eccomi, ci sono ancora.

Se non fossi stato ridotto al ruolo passivo del defunto, senza dubbio sarei indispettito dal fatto che alcuni tra gli intervenuti alle mie esequie meritavano la morte molto, ma molto più di me. Crudele da parte mia, ma vero. In mezzo a tutti i presenti (e devo diri sono tanti; un bel funerale diranno molti di loro tornando a casa, attenti a come attraversano la strada, che se no…; c’era tutta la città! racconteranno masticando la cena riscaldata nel microonde, una volta tornati nel seno della famiglia. Al sicuro. Ah! Anche se morto, anche se travolto dalla tragedia, devo ammettere che questo dettaglio mi lusinga; la vanità umana muore con lo spegnersi dello spirito, e il mio è ancora, Konstantin!), sono solo due persone che senza parola, ora, qui, immediatamente prenderebbero il mio posto, sopra la pedana da feretro, tappezzata di velluto sintetico dozzinale colore del vino andato a male – sono mio padre e mia madre. Lo so, lo so. Poveri vecchi. Tutti gli altri soffrono, si disperano, piangono e basta.

Eh, se credessi in dio, vorrei tanto incontrarlo; finalmente, e dove vuole lui; non ne avrei paura, e gliene direi quattro, così, direttamente in faccia.

Invece mi diverto a immaginare Konstantin mentre volteggia come un corvo in volo a raso terrra, intorno alle centinaia di corpi umani, dell’età terrena tra i dicianove e settant’anni, prossimi alla morte, che era costretto ad osservare nel corso dei due decenni e mezzo dei suoi studi, cercando di acciuffare il momento preciso della loro separazione dalla vita. Che lavoro terribile! Altro che la miniera!. Lo vedo correre da un capo all’altro della Russia, come una vedetta da beccamorto, con tutto quell’ accozzame di apparecchi inverosimili – si, si, accozzame, altro non poteva essere, conoscendo la tecnologia sovietico-russa dei suoi tempi – stretti sotto il braccio, cercando di fotografare, con l’ausilio dei suoi tubi misteriosi, e apparecchi ottici, con l’apposito rilevatore tipo anim-Geiger, oscillografi e altri ageggi indecifrabili, il ciuffo etereo dell’anima umana sopra il corpo del defunto, sventolante come un pennacchio metaempirico, mentre lo abbandona per sempre. Intuisco che l’ultima immagine che si presentava a quei poveracci, fosse il tubo arancione degli apparecchi, che assomigliava più ad un mortaio vecchio tipo usato nella guerra afghano-sovietica che ad un misuratore sofisticato della presenza dell’anima umana, puntato dritto sui loro corpi moribondi. Mi viene da scoppiare a ridere davanti a quella visione grottesca. Konstantin, smettila di terrorizzare la gente! Non ti accorgi che già stanno tremando di paura, Maestro?

Qualche anno fa, portai ad un medico giorgiano scappato in Occidente – all’epoca ero laureando di ingegneria biochimica in gita di premio con i colleghi studenti come me – da Mosca a Roma, una borsa piena di tubi arancioni, scrostati quà e là, come i tuoi, che gli erano necessari per poter esercitare la professione nello studio medico privato che aveva aperto in un paesino vicino a Roma. Il borsone era tanto pesante che sentivo le mie braccia allungarsi di dieci centimentri mentre lo trascinavo. Però, la consapevolezza di poter aiutare un povero esule giorgiano scappato via da un sistema totalitario, mi fece sentire talmente nobile che non pensai assolutamente al rischio al quale mi ero esposto. Il medico, un ometto tutto scuro, con un viso minuto sul quale dominavano le sopracciglia folte senza soluzione di continuità sopra il naso, e due occhi piccoli ma brucianti come due pezzi di carbone arroventato mi porse la sua mano morbida e con una stretta vigorosa mi ringraziò per il favore; poi alzò da terra il suo borsone – i tubi come se avessero riconosciuto il proprio padrone abbaiarono soddisfatti con un soffocato suono metallico – e un attimo dopo sparì nella calca umana della metropoli. In seguito non ebbi nessuna notizia su di lui. Niente. Perchè mi sono ricordato di questo episodio poco significativo, nel giorno del mio funerale? Non lo so nemmeno io. Probabilmente perchè in quell’occasione avevo sentito intorno a me, un’ aura, quasi impercettibile, ma presente, di luce. Ridicolo, vero?

Konstantin, però, sostiene che quella da lui fotografata, non sia un’ aura. Essa si può vedere anche ad occhio nudo avvolgere le persone dotate di particolari caratteristiche e, comunque, in vita. Ce l’abbiamo tutti e non è necessario morire perchè si manifesti. Il professor Kostja ha fotografato l’anima. E questa, come già ho detto, non ce l’abbiamo tutti. Se potessi incontrarlo, gli chiederei se fosse possibile far finta di averne una, almeno, nel momento della morte. Per ogni evenienza. Già che nella vita facciamo finta di amare, recitiamo l’amicizia, lealtà, a volte l’intelligenza, anche se quest’ ultima risulta piuttosto difficoltosa. Si può fare al massimo un unico atto. Solo la stupidità non si può camuffare recitando. Per l’anima, forse, vale lo stesso. In tal caso, quale metodo scientifico adotta, gli chiederei. E, senz’altro, lo metterei in difficoltà. Che divertimento sarebbe!

Non mi posso lamentare, mi hanno vestito bene. Sono elegante nel mio nuovo completo blu di perfetto taglio sartoriale, la camicia chiara e la cravatta scura con la fantasia discreta. Vestire bene per me era un imperativo, da quando ero adolescente, era diventato il mio modo di vivere. Ed ero generoso con me stesso e con quelli che volevo bene. Sui piedi ho le scarpe nuove, acquistate pochi giorni prima di morire. Avrei dovuto calzarle per i ricevimenti e gli appuntamenti di lavoro, fissati con alcuni mesi di anticipo. Tanto ero richiesto. E invece mi sono servite nella morte. E’ una delle usanze che non capisco, quella di far vestire di nuovo. Ma ci sono anche le altre abitudini che non comprendo neanche oggi. A un mio conoscente è capitato di fare a Trieste un acquisto particolarmente conveniente, in quel periodo di grandi shopping che tutti gli jugoslavi facevano nella fraterna Italia; si trattava di un paio di scarpe da uomo straordinariamente belle e conformi alle tendenze di moda di quella stagione. Al ritorno si era vantato con il mondo interno per il suo fiuto da perfetto cacciatore alle occasioni e della propria fortuna di consumatore, suscitando una certa, pur nascosta, invidia, di chi ne era comunque incline. Il suo orgoglio si sciolse con la prima pioggia autunnale, quando le sue scarpe lucide che sembravano fatte del migliore chevreau si impregnarono d’acqua prima, e poi davanti agli occhi di tutti si sciolsero trasformandosi in listelli di cartone scolorito diventato pappa mischiata con i fiumi lerci che scendevano lungo le strade belgradesi, lasciando le dita dei piedi, protette solamente dai calzini fradici, confuse e shockate. Si era comprato le scarpe da morto. Naturalmente, il commerciante triestino, furbacchione, non gli ha fatto notare che quel modello, esposto in una vetrina a parte e con una targhetta discreta scritta a minuscoli caratteri e un’ altra con il prezzo in grassetto, messo bene in evidenza, era merce destinata all’uso speciale. Volendo credere comunque nella bontà dell’animo del venditore, può darsi che fosse convinto che il mio amico stesse acquistandole per qualcuno, o perchè no, a se stesso, per il non si sa mai. Il puro e razionale pragmatismo latino! Forse loro stessi, convinti di essere il più cristiano di tutti i popoli cristiani, già per il fatto di essere nati sotto l’ombra del Cupolone e del colonnato di San Pietro che copre l’intero stivale, comunque non credano nell’aldilà, motivo per cui per il banchetto dei vermi forniscono solo l’abbigliamento di qualità inferiore.

Credo che ai defunti bisogna far calzare le scarpe che a loro piacevano di più, quelle che li servivano meglio, quelle che indossavano alle occasioni più preziose; per un appuntamento amoroso, il primo, tanto agognato o, perchè no, quello clandestino; o durante l’attesa della nascità del primo figlio; nel viaggio più desiderato, quello intorno al mondo; nel momento in cui per la prima volta avevano aperto la porta della loro nuova casa, che puzzava ancora di tinte e vernici, tanto da pizzicargli gli occhi, mentre a lui sembrava che odorassero già del pane appena sfornato, dei lamponi maturi, e dell’amore carnale; quelle collaudate, deformate, dai tacchi consumati al lato esterno e dalle suole lisce per il tanto camminare; quelle che hanno assunto la forma del suo piede, e conservato il ritmo del suo passo, la stanchezza e la fretta, la sete del sonno nel primo mattino invernale, ancora cinque minuti!, e la corsa per tornare a casa dal lavoro; ecco quelle scarpe bisognerebbe far calzare ai piedi del defunto, per mostrare al mondo che comunque si è stati vivi.

Ora invece, mi sembro un indossatore spettrale della mia stessa vita che non ho vissuto fino in fondo perchè la morte mi si è parata avanti e io non sono riuscito a schivarla. Sono perfetto nel mio ruolo. Impeccabile. Soltanto questo grande ematoma viola sulla mia testa, deturpa il bell’ovale del mio viso nobile e virile, al quale, come a pochi, si addiceve il collo alto, la dolce vita così come elegantemente e naturalmente mi calzava a pennello anche la vita.

Ora, Konstantin, dimmi, sei riuscito a capire dov’è che si ripara, dopo, l’anima che dici di essere riuscito a fotografare? E a che serve l’anima senza il suo corpo, senza il ricordo, senza l’emozione, senza la via dove è nata, senza il ricordo della scuola dove è riuscita a scrivere la prima lettera dell’alfabeto, una a minuscola e in stampatello, un’ anima priva della radice del suo corpo che la legava alla vita? Dimmi Konstantin, a che serve l’anima fluttuante, che non può sfiorare la fronte del proprio figlio che ha la febbre e piange disperato questa notte? Che se ne fa del ciuffo di nebbia che gli svolazza attorno? Egli ha bisogno della presenza fisica, di una gamba del padre muscolosa che calcia il pallone, la mano che stringe la racchetta da tennis tanto forte che si vedano i nodi delle vene intrecciate, dentro i quali pulsa la vita, un giro in bicicletta intorno al lago ghiacciato che promette il ritorno della primavera; e l’abbraccio, l’abbraccio… L’anima non sa abbracciare. L’anima non ha la voce. Nè si esprime a parole. E dimmi, bello mio, a che serve quel magazzino divino a tre livelli e uno intermedio, dove, ecco, oramai da millenni vengono ammassate, come sostengono i beninformati, le anime dei defunti? La vita stessa è il premio, e la condanna; un paradiso migliore della vita, e un inferno più infernale di lei non esistono.

Se fossi vivo, prenderei a martellate i tuoi stupidi apparecchi e ti costringerei a lasciar perdere gli ospedali e gli obitori dove ti sei relegato volontariamente, ti spingerei fuori, fuori! su un prato, ti forzerei a fissare il cielo ad occhio nudo, per ore, ad annusare le erbe, e ad ascoltare il brusio dei piccoli mondi sottostanti. Non ridere, stupidone! E’ così! Ti costringerei a fare l’amore con la tua donna ormai sfiorita, stanca di aspettare che ritorni dalle morti altrui, con il racconto delle anime degli sconosciuti catturate in un fermoimmagine spettrale. Tutto può sparire in un solo istante, tutto quello che ora ti sembra possa attendere. Ti troveresti allora nella mia situazione, di osservatore del proprio funerale, che cerca disperatamente di conservare negli occhi dell’anima tutti quelli che hai mai amato per non dimenticarli; di chi vorrebbe loro dire parole di amore, che dopo, dopo, non sentiranno più; di chi vorrebbe liberare tutti i nemici e tutti i traditori della propria rabbia accumulata, anche se sa, che nessuno, ah! nessuno farebbe a cambio con te. A parte il padre. I padri non sopportano la morte dei figli. Neanche le madri. Smettila di fotografare le nostre anime spogliate dei nostri corpi! Lascia perdere! Lasciaci perdere nel nostro dolore, Konstantin!

Sto per abbandonare questa adunanza, il mio tempo sta scadendo, sarò come un sasso buttato nel lento fiume di una pianura, che prima di cadere sul suo letto indifferente, produrrà un orgia di circoli concentrici sulla sua superficie. Il tutto durerà poco. E poi, quando tutto si placa, e lo spazio scenico del dolore si sarà riempito di buio, coperto dall’impenetrabile strato di occasioni perse, e parole non dette, riprenderà, inesorabile, il regno della Quotidianità, una sovrana eternamente giovane e capricciosa, che attira a sé tutti gli sguardi e non giustifica nessuna assenza, se non con la morte. Tutto continuerà scivolando lungo la corrente inarrestabile della vita, come sempre.

Konstantin, Kostja caro, torna in te! È la vita – il mistero; è la vita – il miracolo, non la morte, caro mio! Non la morte! Credi alla parola di questo Defunto!



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4 thoughts on “IL DEFUNTO, UN RACCONTO DELLA SCRITTRICE TIJANA M. DJERKOVIC

  1. icittadiniprimaditutto ha detto:

    Reblogged this on i cittadini prima di tutto.

  2. luigi ha detto:

    bellissimo!

  3. Lorenzo Mazzoni ha detto:

    Buongiorno, avrei necessità di mettermi in contatto con TIJANA M. DJERKOVIC per una proposta di pubblicazione per Atlantis, la nuova collana che curo. Non trovo la sua mail.

    Mi può contattare qui:

    lorenzomazzoni74@hotmail.com

  4. Pietro ha detto:

    E’ un racconto meraviglioso che, nella sua poesia, invita a fermarsi ed a riflettere sul nostro io, sulla notra esistenza, sui nostri affetti, sugli altri e sul nostro animo….

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