PERCHE’ LA STORIA NON E’ MAI INIZIATA – SULLA POESIA E SULL’INAUTENTICITA’ UMANA di Massimo Pamio


Nei contenuti della poesia lirica moderna, nell’assegnare ai sensi la facoltà di estendere i confini spaziali dell’io e di proiettare il soggetto al di là di se stesso, fino a farlo coincidere con gli elementi o con i limti della natura, appaiono evidenti i sintomi di un ritorno al primitivismo – riscontrabile pure nella coeva arte espressa da Cézanne a Gauguin, dai cubisti ai fauvisti, da Matisse ai naturalisti così come da Rousseau il Doganiere e da Frida Kahlo agli impressionisti e ai macchiaioli- ovvero alla riscoperta della complessità delle facoltà sensoriali, a cui vengono assegnate potenzialità straordinarie(1), al fine di lasciar penetrare l’io poetico nella natura, operazione quanto mai rischiosa, paragonabile all’esigenza pratica dell’esercizio di un animismo psichico che tenderebbe a ricondurre l’uomo nell’alveo del suo essere animale, verso uno stadio in cui la coscienza verrebbe incitata a abbandonare la dimensione razionale in favore dell’apertura metamorfotica, all’altro da sé. Possiamo addirittura incontrare versi di autori che si dirigono sempre più lontano, in bilico sull’abisso tra essere e essere altro da sé, in una regressione antropologica diretta a ripercorrere ere che insinuerebbero la mente nella dimensione vegetale e perfino in quella minerale, liberando il sogno umano di divenire pietra tra le pietre, per raggiungere una lontanissima arché, verso la fondazione stessa del mondo, verso l’indistinto, verso il caos primigenio; d’altronde che cos’è la poesia se non l’esercizio costante di un pensiero dell’Origine, un ripensare l’Origine?

Tutt’altra la condizione del narratore moderno, coinvolto in un intreccio in cui la sua personalità deve invece piegarsi a una schizofrenia corpuscolare, per mettersi completamente in gioco nel divenire una, mille altre personalità, sempre preoccupato dalla inevitabilità di un destino e di più destini che oserei definire “psichici”, all’insegna di uno psicologismo dominante, figlio del freudianesimo e delle sue derivazioni; senonché ci sono scrittori, come Marco Tornar, che nei loro romanzi più che alla ricerca di una fabula e di un mirabolante intrecciare e mescolare vite e destini, si propongono di dedicarsi alla ricerca di uomini realmente vissuti, ovvero di fantasmi, ricreando per loro le migliori ambientazioni e offrendo loro i migliori servigi pur di convincerli a tornare in vita; spendendo energie nel ricostruire atmosfere ovattate in cui personalità dimenticate si riprendano con sfrontata follia la voglia di affrontare una vita seconda, resuscitati in virtù di un atteggiamento romantico che non si avvale soltanto dell’immaginazione ma anche di una specie di procedimento esoterico, di un lungo e sofferto approcciarsi loro mediante la pratica di sedute spiritiche nel corso delle quali si verrebbe a catturare l’attenzione dell’incauto fantasma, strappato all’ombra, sfregiato di nuovo alla ustione della luce, costretto a indossare in fretta marsina cappello e bastone; tant’è che i protagonisti dei libri di Tornar, ad esempio, appaiono spesso sorpresi, esortati a svelare con sospesa gioia una serie di lancinanti ricordi. Fantasmi, proiezioni di personalità che vincono il tempo, chiamati fuori dal tempo, persone non compiute, interrogate di nuovo sulla loro incompletezza, ancor piene di pudore, di colpe, vittime di un’esistenza di cui non sono riuscite a distillare il senso, situate ancora nello stadio del limbo, indecise su quale giudizio emettere nei propri confronti.

Queste riflessioni ci inducono ad analizzare ciò che Tornar insegue nei suoi romanzi; uno svuotamento dello storico, innanzitutto, affinché il protagonista diventi nostro contemporaneo, un azzeramento del concetto di storia in favore di un eterno presente delle cose e degli uomini. Riesco a capire la predilezione di un regista come Sabatino Ciocca per i romanzi di Tornar: che cos’è il teatro se non magia, ovvero l’enucleazione della storia dal centro della vicenda in cui tutto è presente? Il teatro è lo scenario dell’unità di spazio e tempo, la storia si fa eterno presente, l’azione è la conseguenza di una nemesi, a cui ciascuno è chiamato, in virtù di una realtà che è prestorica, arcaica, in cui agli uomini nulla si svela, giacché tutto si svolge sulla base di una assoluta naturalità: rivincita dello spazio naturale su quello storico e umano. Non c’è un senso nelle azioni dell’uomo e dunque non c’è temporalità, non c’è progresso, ma eterno ritorno del Destino e del suo fantasma di cui gli uomini sono incarnazioni inconscienti ma prevedibili: l’uomo non sa, è parte di un disegno misterioso della natura, è conseguenza e non produttore, l’uomo è un effetto e non una premessa. L’uomo non è mai stato, secondo Tornar e secondo la poesia: l’uomo non è mai nato e la sua coscienza è appena il prolungarsi della natura in un tentativo di autorispecchiamento che non produce nulla se non il destino stesso della genetica, della morfogenesi, della Vita, del Bios.

Henri_Rousseau Il sogno

Il fantasma che oltrepassa il tempo, proiezione di una larva, è l’uomo spossessato dell’umanità, creatura che recupera o incorpora la sua animalità, ovvero la sua anima. Che cosa sarebbe l’animale se non ciò che essendo privo di corpo e di mente viene a identificarsi con il suo essere stesso una volta e per sempre? Il fantasma è un mondo, un significato rinchiuso per sempre nel suo significante, è la negazione dell’uomo linguistico e il recupero dell’uomo dei sensi: il fantasma viene a coincidere con i suoi sensi, con le sue passioni, abbandonato il telos, il fine a cui in vita le sue azioni tendevano. In questo senso, l’uomo e l’animale si ricompongono in una nuova figura, nel lemure, figura che sta a metà tra l’umano e l’animale, una terra di mezzo in cui finalmente si pacifica la contraddizione del mondo e del regno animale. Il lemure non è animale ma non è più uomo.

Il fantasma ha esaurito la sua esistenza terrestre e carnale, ha realizzato la sua opera e giace inoperoso, nel buio, vive in uno stato come in quello che si verifica dopo l’appagamento sessuale, allorquando il mistero dell’amore è svelato, e gli amanti si contemplano come animali. La beatitudo è tutto in questo atto che il fantasma compie di se stesso, nel dimenticarsi come essere umano e nel proporsi come essere restituito alla sua creaturalità, al suo modello: “di una natura che non aspetta alcun giorno e quindi nemmeno alcun giorno del giudizio, come modello di una natura che non è scena della storia né dell’abitazione dell’uomo”(2). La natura separata dalla redenzione, la natura non come opera del Demiurgo, ma archetipo della beatitudo(3).

Una interpretazione postgnostica, non sicuramente antropocentrica, che rinnega l’azione dell’uomo, creatura definibile come ultimo inganno della Natura e non come ultimo anello dell’evoluzione, votato a una salvezza che gli è però intrinseca e che forse si realizza nella natura, oppure nella dimensione del “fantasma”.    

Interpretazione astorica di cui sarebbe depositaria la poesia. Ma perché la poesia dovrebbe essere astorica? E se fosse vero il contrario? La storia è l’appartenere dell’uomo a una comunità in vista di un telos, di un fine. La salvezza è possibile solo alla comunità, non all’individuo, come sostengono le religioni. La poesia, invece, forma di recupero del concetto che assegna all’individualismo e all’io il diritto di manifestare la propria alterità, mira a reinserire l’uomo  nel processo di una storia ben più ampia e significativa, che è quella della specie animale, della vita evolutiva. La poesia vuole scrivere la storia della sospensione d’ogni giudizio, d’ogni espressione in merito al bene e al male. Essa supera ogni conflitto umano in vista della noia(4), ovvero della sospensione del pensiero di fronte a tutto ciò che lo circonda: la poesia in questo senso è salvifica, riscatta l’uomo dall’antropocentrismo e dalla verità falsa in cui cade ogni qualvolta pensa e parla: la poesia non a caso mira al silenzio, al misticismo naturalistico in cui le cose parlano ma non ci parlano, e che sono in quanto apparenza, epifania. La poesia si consegna a qualcosa che fonda l’uomo nel suo rifiutarlo, nel suo chiudersi a lui, in un luogo del non rivelato che congiunge tutte le cose: perché svelare significa consegnarsi di nuovo al velo e non al mistero che tutto comprende, al rifiuto, che è il senso del tutto. Il tutto si rifiuta, il tutto chiama l’uomo e l’uomo risponde: lo evoca, ma in questo doppio procedimento è il luogo del rifiutarsi reciproco che si svela, il fatto che la conoscenza e la coscienza sono due aspetti dell’impossibile conoscersi e dell’essere consapevoli della propria umanità. L’uomo non conosce, ma conosce il rifiuto, non sa, ma esperisce la risposta vuota del sapere, ovvero l’essere nel non-sapere. L’uomo, come l’animale, è sempre in sospeso sul mondo, lasciato vuoto luogo del mondo, in cui è impossibile ogni totalità e in cui l’inganno consiste nel costituire una comunità che possa erigere il totem della propria storia. La storia è nient’altro che l’estremo allontanamento dalla verità iniziale, ovvero dallo scacco metafisico che l’uomo esperisce: pedone sempre in movimento sulla scacchiera del Bios. 

L’uomo non può parlare che dell’inaccessibilità, dell’indifferenza, dello scacco ma da tutto questo egli crea le possibilità, ovvero l’apertura verso un senso. L’uomo è l’aprirsi a un senso, pur sapendo che si tratta di una Morgana, di un’illusione dovuta forse alla sua natura evoluta, uno scherzo della natura, una beffa della natura che non ha voluto nell’uomo altro che un barlume di rispecchiamento. La natura nell’uomo NON si interroga, ma tace e si specchia. La natura sospende se stessa nell’uomo e si tace. L’uomo è il No della natura, è il Bios che si autocompiace del proprio meccanismo imperfetto, e che si sospende una volta per tutte in una creatura forse per celarsi, o per annullarsi, o per studiare altre possibilità in cui emergere. L’uomo – questo il senso della natura – serve per dar spazio a un nuovo virus, per essere incosciente tramite di nuove note o nuove forme, inconsapevole mezzo e non fine della trasmissione di nuove possibilità del Bios. Ma a che pro la parola, a che pro il pensiero dell’uomo? A che pro la capacità dell’uomo di analizzare i processi della vita? La risposta è nella parola e nel pensiero, che produrranno nuovi virus, nuove forme di vita, continuando o distruggendo l’Opera del Mondo. La parola e il pensiero sono per l’uomo invece il suo essere sospeso sul mondo il suo sentirsi rifiuto del senso, il suo tentativo di offrire un senso alle sue azioni al di là del carcere in cui è inserito perfettamente. Insomma, l’uomo è un povero illuso, che si crede pericoloso ma non lo è, che si crede onnipotente ma non lo è, che si pensa libero ma non lo è. L’umanità, ancor meno, è il crogiolo laboratorio in cui la Natura continua a testare se stessa, nel processo del Bios, che inarrestabile non è, se non per l’illusione dell’uomo. Quale definizione più sciocca e risibile dell’homo faber? L’uomo non fa, non crea, ma è solo il tramite di un fare che da milioni e milioni di anni si esercita nell’universo, uomo che come tramite vale tanto quanto un’altra specie. Quando l’uomo è l’aprirsi alle possibilità, questo non vuol dire che egli si apra alle proprie possibilità ma a quelle della natura: egli è il cantore delle possibilità del vivente, il testimone del vivente. È l’annunciante che indica le possibilità, una specie di dito rivolto verso la natura mentre tutto è in silenzio e soprattutto mentre egli guarda non la natura, ma il suo dito. E proprio questo silenzio in cui egli è gettato dimostra la sua inutile vanagloria di credersi coscienza del mondo, interprete della verità, portatore del Bene. Egli rende viva la possibilitazione del Vivente, il suo è poter dire, non voler dire, un poter indicare, non un indicare, e la sua potenza si riassume tutta nella parola che risuona nel silenzio assoluto dell’universo che lo circonda. Forse per questo oggi egli ama accompagnarsi ad animali, crea robot e intelligenze artificiali, invoca l’arrivo di extraterrestri, per respingere la verità che la sua voce sia essenzialmente un surplus di mutismo, grido animale più che testimonianza di una credibile rumorosa autenticità. Gli uomini, è pur vero, dialogano tra di loro, ma il discorso è unico, la parola assume una sola dimensione e il rifiuto è sempre la base della sua essenza. Il dialogare degli uomini tra di loro è il costituire comunità: è storia, ma questa storia è solamente un concentrarsi dell’uomo sulla propria umanità, ovvero sulla capacità di costruire rifugi, di garantirsi il cibo e le migliori opportunità per sopravvivere. La storia è dunque il racconto dei suoi modi di sopravvivere, creando comunità e addirittura civiltà, ovvero comunità che sopravvivono a lungo più delle altre. Parodia dei branchi, le civiltà, organizzazioni più complesse di quelle create dagli animali, ne ricalcano le orme e le gesta. Ordinate secondo riti e simboli, le civiltà non sono altro che la storia di rappresentare e di modificare nel tempo questi simboli e questi riti.

L’uomo vive nella evocazione, ovvero in uno spazio vivente dove tutto lo chiama, lo sollecita alla testimonianza. Non sta in uno spazio di rivelazione, sebbene tanti profeti si siano eletti messaggeri di sedicenti proditorie Rivelazioni di ogni genere, Rivelazioni che riferiscono verità divine, frammenti di assoluto che circondano l’uomo. Testimonianze d’assoluto che per un attimo interrompono il Rifiuto in cui egli è gettato, il silenzio che gli risponde ogniqualvolta viene sollecitato dagli animali e dai minerali che lo circondano, dall’occhieggiare delle stelle, dal trascorrere di asteroidi, comete, dal lontanissimo implodere di galassie e di buchi neri.  

La salvezza dell’uomo non risiede nella scelta individuale, nel suo personale porsi in favore del bene o del male ma nello scegliere la comunità come destino, comunità dove reca la sua fede nella salvezza e nell’amore. Quale forma è meno umana e meno votata alla salvezza dell’uomo se non la poesia? La poesia innalza l’uomo alla sua individualità e lo fa pietra e animale, lo disperde nella testimonianza del vivente, allontanandolo dalla comunità e dagli altri uomini. Che dunque la poesia sia un genere pericoloso, avverso all’uomo e all’amore? La poesia è luogo che si apre al rifiuto e che dunque tende a azzerare l’uomo? La poesia è sicuramente il luogo di una sconfitta. Innanzitutto della parola. La parola non salva, non redime l’uomo ma lo condanna ad una regressione verso l’origine, e cioè verso il silenzio. La poesia è il luogo in cui la parola confuta se stessa e si consegna alla verità del non-dicibile, quale vera possibilità per l’uomo di assumere su di sé la sfida del Rifiuto.

Se nei romanzi di Tornar il senso sta nel ritrovare ancora intatta l’anima di un uomo, che dopo secoli riprende a pulsare o a reincarnarsi in uomini di altre epoche o torna ad apparire come fantasma, la storia comunitaria viene meno rispetto alla possibilità di rispecchiarsi in un individuo o di resuscitare addirittura in una creatura vissuta centinaia e centinaia di anni prima. La fede nella storia è superata, cancellata dalla fede nella vita. Ecco, il senso dell’uomo si compone e ricompone nella Vita, in una vita autentica di cui ciascun individuo dovrebbe essere artigiano e modellatore inarrivabile e inimitabile, poi che la fede nell’opera della propria vita dovrebbe attestare la fede nel vivente, in modo che la propria

verità venga a coincidere con quella della vita, e la legge dell’individualità con quella dello Spirito Vivente. Per questo, i romanzi di Tornar possono essere definiti poetici, in quanto il senso dell’opera sta proprio nel creare un ponte tra individui distanti che afferrano per sempre la potenza del Bios, e questo ponte è costituito dalla passione, dalla potenza dell’individuo di trasmettere amore al di là del tempo, dello spazio. Che dunque il continuo pullulare dei fiori degli alberi e degli animali sia rivolto in qualche modo non tanto alla possibilità dell’uomo di evocarli, quanto alla possibilità dell’uomo di amarli?    

______________________________

(1)    Questa interpretazione potrebbe essere osservata anche da un altro punto di vista, espresso da Valéry, quando definisce la modernità “velocità, abusi sensoriali, luci eccessive”; la riscoperta delle facoltà sensoriali e il loro potenziamento (che ha a che fare anche con l’uso di droghe e psicotropi a fine Ottocento) potrebbero aiutarci  ad allargare gli orizzonti del nostro mondo.

(2)    W.Benjamin, 1996, p. 393.

(3)    Cfr. G. Agamben, 2002, pp. 83-84.

(4)    Ib., p. 64 e passim.

 

marcotornar

Marco Tornar

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1 thoughts on “PERCHE’ LA STORIA NON E’ MAI INIZIATA – SULLA POESIA E SULL’INAUTENTICITA’ UMANA di Massimo Pamio

  1. sabatino ciocca ha detto:

    Le tue lucide riflessioni, caro Massimo, da me condivise per buona parte, le trovo esplicitate ne “L’uomo dei sogni” film diretto da Phil Alden Robinson. E Tornar pianta campi di granturco!

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