MARTA SFORNI ESPONE ALLA BEATRICE BURATI ANDERSON ART SPACE & GALLERY A VENEZIA
di Massimo Pamio
Il nuovo spazio espositivo di Beatrice Burati Anderson è incomparabilmente suggestivo, forse uno dei più ammirevoli e commoventi del nostro paese. Per gli artisti mi pare luogo particolarmente ambito, ma anche estremamente insidioso, perché richiede talento, silenziosa umiltà, attenta cura a chi intenda occuparlo, onde raccoglierne l’implicita sfida di una competizione pacifica sulla bellezza, in cui la qualità del creativo si misuri e si temperi equilbrandosi nella magia dello spazio espositivo. Qui Era, Atena, Afrodite, gelose tra di loro, sembrano tornare in gara sulla bellezza, e Marta Sforni giuoca tutte le carte del divino per ambientare “la sua fragilità: la sua forza” in una galleria che sembra più immaginaria che reale, adatta per catturare la bellezza, e che è un piccolo tempio lantanocentrico volto a rendere visibile l’occulto.

Premetto che oggi la Sforni è l’interprete più autorevole della storia della tradizione della pittura veneziana, in virtù del suo tentativo di far riemergere la “venezia dell’anima” che è in ciascuno di noi, grazie alla pittura ad olio. È lei stessa ad affermare in una intervista rilasciata ad Arttribune: “Un buon pianista conosce bene la geometria del suono, la valutazione delle distanze e la forza o la leggerezza con cui colpire un tasto, il tocco. La tecnica è una questione imprescindibile, me ne sono cucita una su misura, che riprende quella dei pittori veneziani che costruivano il colore velatura su velatura. L’olio la esalta. Un discendente di un’illustre famiglia di pittori veneziani mi diede la ricetta originale del rosa Tiepolo, che serbo con gran gelosia…”.
La Sforni fa entrare sui bordi della tela oggetti trasparenti e fragili di vetro, riccioli, volute, fiori rari e preziosi che sembrano meduse, aggettanti nello spazio, mai centrali, assegnando loro una lateralità che lo spettatore percepisce assecondando spontaneamente la guida dell’occhio destro, per sviluppare poi un vero e proprio movimento in base al quale coglie poi l’intero; il movimento che si compie all’interno dello spazio viene colto unitariamente: la fragilità degli oggetti è vista come un movimento interno dello spazio, e la tecnica della Sforni ci induce a credere in una vita interiore degli oggetti che a noi resta invisibile, e viene colta solamente inconsciamente; gli oggetti si spostano nella nostra mente, formano un percorso ideale che si imprime come suggello dell’unità. Gli oggetti non sono staticità, dunque, in quanto frutti di una visione complessiva che tende a privilegiare l’unità complessiva della scena reale, grazie a una terza funzione a cavallo tra spostamento interiore e scorrere visivo dello sguardo, che contribuisce a fondare l’istante, il Tempo, all’interno del quale il movimento è apparenza visibile e ritmo della coscienza individuale. È inutile dire che i grandi artisti attualmente ci insegnano a entrare nel mistero della percezione visiva, in rapporto a una verità che si fa sempre più complessa, implicita nella teoria dei quanti.

Il disegno compositivo è dominato dalla stesura delle velature ad olio che cercano la profondità della luminosità e insistono sulle trasparenze, per cogliere la variegata stratificazione della sostanza della luce. La luminosità è concepita come un addentrarsi nella materia, forza che scava e forma, e determina, deforma, diffonde per essere assorbita, intesa dalla Sforni come rappresentazione dell’azione della Metamorfosi sugli oggetti: insomma, il vetro viene scavato dalla luce e modificato da quell’energia potente che se ne impadronisce e ne attraversa la fragilità, compiendolo, ricreandolo, traducendone trasparenze imprevedibili, inusitate, offrendo un aspetto del prezioso, che è sostanzialmente ricerca della verità nell’oggetto, di un luogo che la luce cerca e di cui s’innamora e occupa per un tempo, ricavandone bagliori. Materia, colore, luce, forma, spazio sono unitariamente ricomposti in base a una tecnica sopraffina con cui si illustra una interpretazione vivente delle cose.
Sintesi prospettica di forma-colore, ecco il precetto longhiano che la Sforni asseconda e fa proprio, in ossequio a una tradizione pittorica italiana e veneta, che ha in Giovanni Bellini e in Paolo Veronese due degli interpreti più mirabili.
A differenza di questi, però, Marta Sforni si fa pittrice di “nature morte”, la cui tradizione rinnova e rende attuale.
Gli oggetti preziosi e fragili, i lampadari di Murano, i decori, i ricami, gli ornamenti di cui Venezia si è arricchita nel tempo e che sono riprodotti nelle opere della Sforni, costituiscono il modo personalissimo con cui l’artista riscopre la tradizione delle nature morte, coniugandola con una memoria ancestrale che cristallizza gli oggetti nella loro prossima e vicina rinascita.
Sembra un augurio, ma è il modo tutto sforniano di cogliere la vita interiore delle cose.
La luce è quella di un ambiente interno quando viene accarezzato dalle prime soffuse luci dell’alba. Il damascato verde, la carta francese arancio, il rosa Tiepolo del soffitto su cui si stagliano gli oggetti sono riferiti a un preciso istante: quello appunto dell’alba, in cui gli oggetti non sono “morti” ma neanche sono rinati: è il momento prima della rinascita che la Sforni presenta e racconta al visitatore: ella coglie quel che avviene prima della rinascita facendo rivivere la tradizione della natura morta come un luogo che svela l’occultato (o forse il dimenticato), e che ha a che vedere con l’insorgente, con ciò che viene alla sorgente, che è prima dello svelamento (ecco perché c’è un velo nelle sue opere, il vetro è un velo, è ciò che vela il visibile, e che potrebbe essere considerato un trompe-l’oeil, un giuoco e che invece ha a che fare con la vita, con ciò che sta per fiorire, con il coraggio della primavera, con l’ardimento del boccio.
Bisogna tornare al dialogo che l’opera della Sforni intavola con lo spazio espositivo, in cui ogni tanto appaiono gondole che passano sul vicino canale. Da una parte si situa il luogo di transito in cui la gondola trascorre come un ricordo che torna alla mente e dall’altra l’opera della Sforni in cui l’immagine trascorre senza opporre alcuna resistenza allo sguardo cogliendolo però di sorpresa: il tema del passaggio, di ciò che sta per trascorrere, in quanto reca in sé il marchio e l’infamia del tempo, e ne sente il peso e la colpa sopportandone il destino, ciò che manifesta sé sia come luogo sia come frammento del tempo, ciò che già sa e che non pretende riconoscenza, in quanto esempio di grazia, di gratitudine piena che accomuna i quadri della Sforni allo spazio espositivo di Beatrice Burati Anderson.

Tutto è nascosto e si dà fugacemente alla condanna dell’istante, per nascondersi di nuovo, e passare: l’apparire della bellezza, con tutto il suo splendore e la sua fugacità, tutto questo si sente come una mancanza vergognosa e perciò da non mostrare se non nel suo profondo silenzio. Che è quello della disappartenenza, del non potere condividere con nient’altro la propria specificità: sentendosi il differente, che vive nell’indifferenza.
Così opera d’arte sforniana e galleria combattono per la loro visibilità, per la loro luce, per il loro spazio nella guerra dell’incommensurabile e dell’infinita distanza che li permea, li rende differenti e impenetrabili l’uno all’altro, ma rinascenti l’uno in virtù dell’altro; così che formano due aspetti del lontano, dell’occulto che si intersecano senza toccarsi, che si protendono l’uno verso l’altro per rinascere nello sguardo dello spettatore, che solo può rendere testimonianza di un dialogo che la luce vi pone per sempre, nell’istante – nel tempo – della mostra. Allegorie della Bellezza, opera e galleria non competono, ma si rivelano emblemi del passaggio della divinità: qui, nelle opere della Sforni e nella galleria, sono passate Era, Afrodite, Atena, ma pacificate nell’umano.
Le velature della Sforni sono così da interpretare quali metafore dell’invisibile che si cela nel bagliore accecante della luce in cui la luce è discrimine tra invisibile e visibile, tra accecamento e visibilità, tra presenza e azzeramento, tra morte e rinascita. Tutte le sue opere costituiscono un’allegoria dell’invisibile che è nella luce – che è la luce, intuizione che colloca la Sforni in un ambito che si potrebbe definire post-barocco. Interprete somma della luce dell’acqua, quando questa cristallizza e si fa vetro passando attraverso la storta in cui brucia e in cui la sabbia diventa vetro, la Sforni sublima come un’alchimista la rappresentazione della natura morta e ne mostra l’aspetto di trascendenza: l’oggetto, reso poetico, come in Morandi, essenza metafisica. La memoria ancestrale di Venezia diventa “venezia dell’anima”.

