Lettura del film di Massimo Pamio
Di Roberto Andò, regista di grandissima qualità, che ha toccato l’acme artistico con Le conseguenze, uno dei film italiani più importanti dell’ultimo decennio, si proietta in questi giorni nelle sale “Il bambino nascosto”, di cui consiglio vivamente la visione.
Si tratta di un’opera che permette, come tutti i grandi lavori, molteplici punti di vista. Tra i tanti, quello che mi ha colpito maggiormente riguarda il rapporto tra architettura e natura interiore dell’uomo.
Le scene sono in gran parte giocate sulle riprese del palazzo napoletano in cui vivono i protagonisti. Tra architettura e materica intimità, tra Napoli della camorra e animo dell’uomo, si giocano e si costruiscono le due entità fondanti, che si riflettono, l’una contro l’altra, nell’egoico specchio cinematico della camera cinematografica. Una Napoli in piperino scuro che si offre a decadimento, incuria, degrado, scenari notturni, a persone sole che si scoprono prima timorose, inserite in quel paesaggio, poi coraggiose, in grado di riprendersi il mare e il cielo della città.
In effetti il film è scuro e silenzioso, assecondato da riprese lente e insistite, attente ai particolari. Pur se nascosta e appartata, la vita riesce a mutare le certezze che il singolo contempla, rendendo plastiche e adattabili le forme interiori degli individui a quel che c’è veramente da cambiare. Vengono così violati coloro che si nascondono, che hanno inventato una esistenza finta per se stessi. La capacità di trasformare la propria vita investe i due protagonisti della storia, un musicista e un bambino, che si trovano insieme a inventarsi una nuova vita giorno dopo giorno, liberandosi della vecchia, forse mai vissuta se non nell’ombra.
Quando l’evidenza è troppo forte da rendere il cinema nient’altro che mero schema del reale, il silenzio diventa l’unico toccasana per innescare il poetico, ecco perché il non detto viene affidato alle emozioni degli attori, alla smorfia dolente, al volto buffo e tenero, scavato e limpido di Silvio Orlando, che da solo riesce ad attenuare l’eccesso di spocchiosa cura della fotografia e del montaggio. Herlitzka e Imperato e nella prima parte l’esordiente Pirozzi occupano scene che a piccoli frammenti prevalgono sull’insieme in cui spiccano notevoli tagli dal basso, inquadrature ardite di occhi in primo piano spiano dalla finestra ciò che accade nei cortili e nelle arcate del palazzo. La macchina da presa si spinge in giù negli scantinati e nelle gallerie sotterranee sotto il palazzo, rasentando l’horror. Il mondo di questo film è verticale, sbilanciato verso il basso, si nutre della superficie per andare verso l’abisso, con un tocco di pudore, senza volerlo mai toccare veramente. È più poetico sfiorare l’animo dell’altro, e cercare di innalzarsi, per sfuggire al male. Sarà proprio la fuga a salvare i protegonisti, e la macchina da presa torna orizzontale, smentendo tutto il movimento precedente.