Film del 2020, “Palazzo di giustizia” di Chiara Bellosi è un piccolo gioiello neorealistico, che ricorda la sapienza tecnica e narrativa di Rossellini, di De Sica, di Zavattini.
Vi si narra la vita inappellabile e definitiva di ogni gesto che consacra alla vicenda personale, descritta nella sua minuzia, catturata nell’istante in cui accade, in presa diretta.
Un film in cui appare la rivelazione della verità, l’epifania di quel che è, la realtà venuta a definire quel che ciascuno diventa, passo dopo passo.
Il passo lieve della tragedia e dell’attesa, della condanna e dell’innocenza messo in scena dai volti, dagli oggetti, dall’atmosfera di una storia che si snoda in contemporanea, alla velocità del tempo istante.
L’amarezza, il dolore, l’angoscia, la tenerezza che si esperiscono inconsapecolmente lungo il solco della quotidianità costituiscono l’ossatura della poesia, vera protagonista dell’opera, cesellata con il bulino del silenzio delle parole non dette, delle emozioni in filigrana, appena accennate, a volte nascoste, che misurano le dimensioni di un luogo dove ci si confessa, in una specie di aula sacra punteggiata dai voli di un passero che sfugge dalle mani di una bambina, simbolo di una libertà soffocata, parziale, che non compete a nessuno, in definitiva, né dentro, né fuori le aule di giustixia. La camera cinematografica pianosequenziale riprende senza mai assillare o denudare quel che accade, che si identifica – senza orpelli e senza l’invasione di un’ottica moralistica – con lo sguardo tenero ma obiettivo e perentorio della regista. La realtà sembra svolgersi davanti ai nostri occhi, nel suo farsi, in verità si tratta dello sguardo della regista, inquisitivo e curioso fino allo spasimo, che non lascia adito a nessuna intterpretazione, a nessun giudizio. E’ il trionfo di un realisno non ossessivo, non psicotico, non stucchevole ed affettato, non ad effetto e smaccato, non interessato all’incasso, come quello americano.
Un film che ci fa sperare ancora nel cinema italiano, capace di riprendersi dalla sbornia della leziosità di tanti registi celebrati che si affidano alla grande fotografia, dimenticando la storia del cinema italiano e la tecnica con cui sono stati realizzaati capolavori universali, che andrebbero studiati con tanta umiltà. Mi pare che Chiara Bellosi l’abbia fatto, in questo suo piccolo capolavoro.
(Massimo Pamio)
