Film del 2020, “Palazzo di giustizia” di Chiara Bellosi è un piccolo gioiello neorealistico, che ricorda la sapienza tecnica e narrativa di Rossellini, di De Sica, di Zavattini.
Vi si narra la vita inappellabile e definitiva di ogni gesto che consacra alla vicenda personale, descritta nella sua minuzia, catturata nell’istante in cui accade, in presa diretta.
Un film in cui appare la rivelazione della verità, l’epifania di quel che è, la realtà venuta a definire quel che ciascuno diventa, passo dopo passo.
Il passo lieve della tragedia e dell’attesa, della condanna e dell’innocenza messo in scena dai volti, dagli oggetti, dall’atmosfera di una storia che si snoda in contemporanea, alla velocità del tempo istante.
L’amarezza, il dolore, l’angoscia, la tenerezza che si esperiscono inconsapecolmente lungo il solco della quotidianità costituiscono l’ossatura della poesia, vera protagonista dell’opera, cesellata con il bulino del silenzio delle parole non dette, delle emozioni in filigrana, appena accennate, a volte nascoste, che misurano le dimensioni di un luogo dove ci si confessa, in una specie di aula sacra punteggiata dai voli di un passero che sfugge dalle mani di una bambina, simbolo di una libertà soffocata, parziale, che non compete a nessuno, in definitiva, né dentro, né fuori le aule di giustixia. La camera cinematografica pianosequenziale riprende senza mai assillare o denudare quel che accade, che si identifica – senza orpelli e senza l’invasione di un’ottica moralistica – con lo sguardo tenero ma obiettivo e perentorio della regista. La realtà sembra svolgersi davanti ai nostri occhi, nel suo farsi, in verità si tratta dello sguardo della regista, inquisitivo e curioso fino allo spasimo, che non lascia adito a nessuna intterpretazione, a nessun giudizio. E’ il trionfo di un realisno non ossessivo, non psicotico, non stucchevole ed affettato, non ad effetto e smaccato, non interessato all’incasso, come quello americano.
Un film che ci fa sperare ancora nel cinema italiano, capace di riprendersi dalla sbornia della leziosità di tanti registi celebrati che si affidano alla grande fotografia, dimenticando la storia del cinema italiano e la tecnica con cui sono stati realizzaati capolavori universali, che andrebbero studiati con tanta umiltà. Mi pare che Chiara Bellosi l’abbia fatto, in questo suo piccolo capolavoro.
I testi medici dell’antica Mesopotamia forniscono prescrizioni e pratiche per curare tutti i tipi di disturbi, ferite e malattie. C’era una malattia, tuttavia, che non aveva cura: l’amore appassionato. Da un testo medico trovato nella biblioteca di Assurbanipal a Ninive deriva questo passaggio:
Quando il paziente si schiarisce continuamente la gola; è spesso senza parole; parla sempre da solo quando è completamente solo, e ride senza motivo negli angoli dei campi, è abitualmente depresso, ha la gola stretta, non trova piacere nel mangiare o nel bere, ripetendo all’infinito, con grandi sospiri: “Ah, mio povero cuore!’ – soffre di mal d’amore. Per un uomo e per una donna, è tutto uno e lo stesso. (Bottero, 102-103)
Il matrimonio nell’antica Mesopotamia era di vitale importanza per la società, letteralmente, perché assicurava la continuazione della linea familiare e assicurava stabilità sociale. I matrimoni combinati erano la norma, in cui la coppia spesso non…
Aunque el carácter sumamente personal de su obra impidió que Henri Michaux –uno de los artistas europeos más auténticos de la posguerra– llegara a un amplio sector del público, su poesía y sus pinturas merecieron los elogios de un amplio grupo de admiradores. Entre éstos se encontraba Jorge Luis Borges, que en el prólogo que escribió para uno de los libro del artista belga, lo definió así: “Hacia 1935 conocí en Buenos Aires a Henri Michaux. Lo recuerdo como un hombre sereno y sonriente, muy lúcido, de buena y no efusiva conversación y fácilmente irónico. No profesaba ninguna de las supersticiones de aquella fecha. Descreía de París, de los conventículos literarios, del culto, entonces de rigor, de Pablo Picasso… A lo largo de su vida ejerció dos artes, la pintura y las letras. En sus últimos libros las combinó. La noción china y japonesa de…
La cerimonia di premiazione si terrà a Torrevecchia Teatina (Chieti) martedì 8 agosto 2023.
REGOLAMENTO
Sezione A – aperta a tutti –
Art. 1 Si partecipa stilando in qualsiasi lingua (se straniera o in dialetto, si deve accludere la traduzione in lingua italiana) un solo testo in prosa, non in poesia, inedito, configurato come lettera d’amore, della lunghezza massima di 3 cartelle (1800 caratteri per cartella spazi esclusi) in 5 copie ben leggibili aggiungendo le dichiarazioni e le notizie richieste all’art. 2, inviando il testo anche per posta elettronica.
Art. 2 Non è dovuta alcuna tassa di iscrizione o partecipazione. Ai testi bisogna accludere: un foglio (si veda il fac-simile allegato) contenente: a) le generalità del partecipante (nome, cognome, indirizzo, età, numero di telefono, curriculum, e-mail), b) dichiarazione di autenticità del testo, c) autorizzazione alla pubblicazione gratuita della lettera e all’archiviazione digitale nel Museo della Lettera d’Amore, che ne acquisisce i diritti di pubblicazione; d) dichiarazione di adesione a tutte le norme del concorso.
Art. 3 Il termine ultimo per l’invio dell’elaborato, da effettuarsi al seguente indirizzo: Concorso Lettera d’amore c/o Associazione Culturale AbruzziAMOci, Via Ovidio n. 25, 66100 Chieti, è fissato al 30 maggio 2023 (farà fede il timbro postale di partenza). Contestualmente si dovrà inviare il testo anche per posta elettronica in un’unica e mail allegando il file formato word che riporti la lettera d’amore da spedire all’indirizzo di posta elettronica: manoscritti@noubs.it, indicando come oggetto: cognome e nome del candidato. La giuria, il cui verdetto è insindacabile, è composta da: Arnaldo Colasanti (Presidente), Tonita Di Nisio, Massimo Pamio, Lucilla Sergiacomo, Giuseppina Verdoliva (segretaria con diritto di voto).
Art. 4 Saranno assegnati i seguenti premi: Euro 500,00 al primo classificato, Euro 250,00 al secondo, Euro 200,00 al terzo; altri premi ai segnalati.
Art. 5 Solo i vincitori e i segnalati saranno avvisati tempestivamente. I risultati verranno resi pubblicamente noti tramite la stampa e i siti internet: www.noubs.it e www.museoletteradamore.it.
Gli elaborati non saranno restituiti. La partecipazione al premio comporta l’accettazione di tutte le norme del presente regolamento. È tutelata la legge sulla privacy. L’Organizzazione non risponde della mancata ricezione dei testi. Le lettere in formato elettronico entreranno a far parte dell’archivio del Museo della Lettera d’Amore.
Art. 6 La lettera d’amore consiste in una composizione in prosa mirata all’espressione del sentimento d’amore rivolta a un destinatario qualsiasi (persona reale o immaginaria, animale, oggetto, luogo o paesaggio). I vincitori dovranno ritirare personalmente il premio nella cerimonia, altrimenti non sarà assegnato (no deleghe). Info: manoscritti@noubs.it, tf. 3279960722 oppure 0871348890.
SEZIONE B – riservata agli studenti delle scuole elementari, medie e superiori (secondarie di I e II grado)
Art. 7 Il Concorso è aperto a studenti delle scuole di ogni ordine e grado, nel rispetto delle norme del bando. Non è prevista alcuna tassa di iscrizione o partecipazione. Si partecipa inviando 5 copie di una sola lettera d’amore da spedire a: Concorso Lettera d’amore c/o Associazione Culturale AbruzziAMOci, Via Ovidio n. 25, 66100 Chieti, entro il 30 maggio 2023 (farà fede il timbro postale di partenza). Ai testi bisogna accludere: un foglio contenente: a) le generalità del partecipante (nome, cognome, indirizzo, età, numero di telefono, curriculum, e-mail), b) dichiarazione di autenticità del testo, c) autorizzazione alla pubblicazione gratuita della lettera e all’archiviazione digitale nel Museo della Lettera d’Amore, che ne acquisisce i diritti di pubblicazione; d) dichiarazione di adesione a tutte le norme del concorso. Per i minorenni l’autorizzazione a partecipare dovrà essere firmata da un genitore o da chi esercita la patria potestà. Sono previsti i seguenti premi: diplomi e buoni libro. La cerimonia di assegnazione dei premi si terrà a Torrevecchia Teatina (Chieti) il giorno domenica 6 agosto 2023. La partecipazione al premio comporta l’accettazione di tutte le norme del presente regolamento. È tutelata la legge sulla privacy.
La giuria è composta da: Anna Crisante, Maria Cristina Esposito, Monica Ferri, Giovanna Tacconelli, Barbara Verì.
dichiara sotto la propria responsabilità, ai sensi della normativa vigente, che
il proprio testo è originale ed autentico e non lede in alcun modo diritti di terzi, in ossequio alle disposizioni internazionali, comunitarie e legislative di cui alla legge 633/1941, in materia di diritti d’autore e successive disposizioni normative, né costituisce violazione di norme penali;
autorizza la pubblicazione gratuita del proprio testo integralmente e/o in parte;
autorizza l’inserimento del proprio testo nell’archivio digitale del MLA/Museo della Lettera d’Amore e la pubblicazione e diffusione dello stesso testo a titolo gratuito e senza limiti di tempo, anche ai sensi degli art. 10 e 320 C.C. e degli art. 96 e 97 legge 22.4.41 n. 633;
accetta tutte le norme del Concorso;
allega alla presente un breve curriculum (professione ed eventuali pubblicazioni);
in caso di vittoria o segnalazione, si impegna ad avvisare l’Organizzazione circa la propria presenza;
per i minorenni: autorizzazione di un genitore o di chi esercita la patria potestà
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data e firma
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La presente scheda, allegata a 5 copie della Lettera, va inviata:
Nutro profonda stima nei confronti di Francesco Dalessandro, dedito al culto della poesia (e non di se stesso come generalmente accade) con tale devozione, da prestare particolare attenzione a quei poeti che non ebbero in vita la fortuna di essere debitamente apprezzati, sia nel caso di Alessandro Ricci, di cui ha promosso la pubblicazione di “Tutte le poesie” (per Europa Edizioni) sia in quello di Camillo Fonte, di cui cura “L’isola”, per le edizioni Il labirinto. La lettura del testo antologico di Mario Albano Alessandro Ricci, sceneggiatore nato a Garessio nel 1943 e morto a Roma nel 2004, mi ha ispirato una poesia che è a p. 250 nella sezione “Dell’ipnofilia” nel mio Anonimie, (poesie 2010-2020, testo pubblicato nel 2023 dopo dieci anni di silenzio dovuto a una mia profonda sfiducia nei confronti del mondo culturale italiano). Il volume dedicato a Ricci, introdotta da Michele Ortore, percorre la parabola poetica di Ricci, dall’esperienza di “Arsenale”, condivisa negli anni Ottanta con un gruppo di poeti romani, alle tre raccolte da lui approntate (due pubblicate in vita, una postuma). Un itinerario fedelmente reso esplicito grazie a Francesco Dalessandro, poeta, amico e, per volontà di Ricci, curatore delle sue carte.
Ecco invece una pagina di Camillo Fonte:
Non ho mai creduto alla favola del poeta invasato dal dio; / piuttosto a un interiore rovello imbrigliato dalla necessità della forma. / E per aver perso l’esercizio (il vizio, se si vuole; magari l’istinto) / dei versi – la fede, per così dire, nella loro necessità –, / non potevo non stupirmi del dono ricevuto la mattina di Natale. / M’ero svegliato presto, con la vaga sensazione che dovesse accadermi / qualcosa; o forse con l’inquietudine che tutto, mio malgrado, fosse / già accaduto durante il sonno. Passato l’attimo in cui la coscienza, / non ancora vigile, fluttua come una bolla di sapone, fatica a rientrare / nel suo alveo di certezze e il pensiero mette a fuoco i dettagli / (i bersagli) quotidiani; passato, dico, lo spaesamento del risveglio, / sentii come un ronzio nelle orecchie, un suono interiore crescente / a poco a poco e che, dapprima distante, via via avvicinandosi, / prendeva corpo e, facendosi chiaro, diventava comprensibile. / La mente, allora, dal suono, riconobbe trattarsi di una breve / sequenza di parole, e il ritmo, scandito da cesure decise e precise, / rivelò quel che erano: versi. Perché io, che non avevo mai creduto / al dono del canto; io, poeta ridotto al silenzio, ricevevo un tale dono? / Stentavo a crederlo. Tuttavia, temendo di perderli, quei versi, / nelle pieghe delle riflessioni, m’affrettai ad alzarmi e a trascriverli, / rinviando a dopo ogni analisi:/
… eri – e non so quale strano destino così ti fece – forte più di ferro temprato ma fragile: un cristallo più di te mi resiste
Turbato, continuai a pensare ad essi, alla loro misteriosa apparizione / e il possibile messaggio che ciò racchiudeva: era questo a turbarmi. / Da tempo, ormai, il mio orecchio era chiuso all’ascolto, il mio sguardo / annebbiato: come credere d’essere stato prescelto?
Infine, non posso non parlare di Andrea Bucci, filosofo e poeta, pensatore di grande valore, un giovane di grandi qualità e risorse, che spero possa trovare spazio nell’ambito di questo mare in gran tempesta senza nocchiero della cultura italiana.
Una stesura stringente, interrogativa, come scrive Giancarlo Giuliani nella dotta presentazione, che incalza il lettore dalla prima fino all’ultima pagina e lo volta e rivolta, in una monologante ricerca che resta aperta, “Rapsodia minore”, come recita il titolo, per le pregevoli edizioni Tabula Fati. Un poeta, Bucci, che ha avuto l’imprimatur di Antonio Allegrini, poeta di immenso valore che vive con i suoi cavalli e con la sua orgogliosa superba solitudine.
Gino Di Tizio, con “Giacomo Anselmi di professione santo” (Tabula fati editore) ha scritto un racconto lungo che, con leggera ironia argomenta il carattere paradossale della realtà, quando alcune vicende provocano conseguenze imprevedibili che sfuggono a chi le ha innescate. Il libro si legge con molto piacere e poi offre un finale sorprendente. Lo spunto per l’opera è venuto a Di Tizio in ricordo di quel che gli accadde da giornalista quando, spinto dal capo redattore, si recò in un piccolo paese dove una vecchina affermava di aver visto la madonna. Un fatto isolato e senza alcun interesse che però, una volta pubblicato sul giornale, alzò un polverone e soprattutto l’arrivo nella località di centinaia e centinaia di curiosi e di credenti. Ecco come viene presentato il libro nella scheda editoriale: “Cosa succede quando si decide che si vuole diventare santi? Ma soprattutto, cosa accade quando si scopre che non si è disposti a intraprendere la via designata? Questo è il circolo vizioso in cui viene intrappolato Giacomo Anselmi, che da giovane voleva diventare santo, ma non si era reso realmente conto di cosa ciò implicasse. Così da una piccola bugia nata per scappare al seminario, inizia a raccontare sempre più bugie. Ai posteri l’arduo giudizio se ciò che ha fatto Anselmi sia bene o male, ma questo libro permette anche di avere modo di capire il suo turbamento interiore, la sua vera fede, capendo quando sfaccettato personaggio sia ben caratterizzato, vivo, reale e pulsante quanto ognuno di noi. Questa opera racconta il santo, racconta l’uomo e racconta il mondo attorno a lui, il mondo della Chiesa, spinto a dover scoprire se sia un truffatore o un veggente, che vuole credergli perché sembra portare solo del bene senza alcun interesse personale, ma anche il mondo dei suoi familiari e della donna con cui vorrebbe stare. “Giacomo Anselmi di professione santo”, è un romanzo toccante, dai risvolti inaspettati che non potrà fare a meno di mettere il lettore in una posizione attiva, ponendosi domande forse mai pensate prima”.
Giancarlo Bufacchi, autore di numerosi romanzi, pubblica per i tipi di Castelvecchi “La nevicata del Cinquantasei”, un libro ambientato in un’atmosfera psicologica con risvolti noir. Alberto, studente di Antropologia, raggiunge la frazione di Pian del Pizzico, arroccata sulla montagna reatina, nel febbraio del 1956. La grande nevicata stravolge il suo progetto di ricerca e, bloccato e isolato, il ragazzo deve contare sulla propria intelligenza per affrontare la vita reale, diversa da quella condotta sino a quel momento. Si ritrova così in un ambiente ostile e gli avvenimenti lo segneranno per sempre: Alberto dovrà convivere con la consapevolezza di aver commesso qualcosa di grave. Dietro la normalità, dietro una vita serena, può esserci un passato con cui, prima o poi, toccherà fare i conti.
DELLA SPERDUTEZZA. NEL VANO DELLE PAROLE di FERNANDA FERRARESSO
di Massimo Pamio
Nel vano delle parole di Fernanda Ferraresso è un poema narrativo o, se si preferisce, un romanzo in versi suddiviso in più parti o scandito in diversi tempi, ciascuno dei quali reca un titolo: il primo “capitolo”, La porta del labirinto, composto da un prologo in prosa seguito poi da un flusso ininterrotto di versi raggruppati in blocchi, così come tutti i seguenti: La porta è un vano senza misura; In una S all’intersezione di una scelta, all’interno del quale è da rimarcare un passaggio,
sguscia in me una curva una doppia tonda
S
sibila sillabando
qual cosa
che si presenta come un crittogramma (la S che sibila è la serpe che si esprime come una cosa oppure una parola che osa?), e poi un altro click spitzeriano
[…]
istantanea l(’)amorte
dove si riscontrano l’uso delle parentesi quadre, l’apostrofo tra parentesi, e la parola amorte separata nelle due parti, amor e morte; quindi La scala non ha gradini, in cui compaiono un dialogo e una frase trascritta in corsivo a mo’ di epigrafe; Un labirinto di sale, in cui è da segnalare una frase scritta in maiuscolo:
CHE COSA HO DETTO?
QUASI TUTTI I GIORNI
CON CHI HO PARLATO FINO A QUI
SE NON AI MORTI?
seguita da una domanda: “dove sono sparite le parole – ti chiedo/ affogate nell’acqua, disperse nell’aria! – rispondi”; Quasi al centro. Un vuoto tutto pieno; Solo. Un disegno senz’ombra; Terzo balcone. Un pulsante fatto a cuore; L’ultima soglia. Porta ancorata al labirinto. Andare è tornare, costituita da un breve testo in prosa che funge da conclusione.
Il testo si declina come un tentativo di scrittura totale, versione poetica dei tentativi joyciani di mettere in prosa una esaustiva parodia del mondo, una riscrittura di tutto il dicibile; operazione quanto mai ambiziosa e contraddittoria, che genera sconcerto per l’obiettivo imprendibile che si propone di raggiungere e per la struttura che deve assumere, dal contenitore troppo vasto per definire con chiarezza ciò che inopinatamente insegue, l’esplorazione di spazi sconfinati. Se alla prosa romanzesca l’operazione appare imprendibile, non così alla poesia, sintetica e compendiosa di sua natura, e in particolare al sottogenere del poema filosofico, che a volte sembra sfiorare il risultato, così come accade per il Poema fisico e lustrale di Empedocle, per Eraclito, per Parmenide, per gli altri presocratici, per il De rerum Natura di Lucrezio, e perfino per le prove (più o meno riuscite) offerte recentemente dallo scrivente nella sezione Delle cose della natura all’interno della raccolta Anonimie e dall’opera di Fernanda Ferraresso qui in esame, alle cui pagine improntate da un discorso filosofico-panistico nel prologo in prosa, seguono quelle in versi contraddistinti da una metrica libera, in cui notevoli sono alcune ricorrenze, l’intrecciarsi attento di novenari con settenari o con endecasillabi, l’uso audace del decasillabo, la distribuzione degli accenti principali nel verso. È da sottolineare l’alternanza del ritmo binario con quello ternario, che compulsa il contrapporsi di segmenti di testo in cui da una parte predomina un respiro sereno, disteso, dall’altra un’esposizione palpitante, affannosa. Ondate ritmico-sintattiche che compongono le differenti esigenze espressive musicali e sonore dell’Autrice, alquanto misurata nelle sue scelte, assecondante l’incedere dei versi fatti di slanci e di forti trasporti emotivi, oppure consegnati al rasserenarsi del dettato. L’uso delle parentesi, dei trattini, il controllo maniacale dei segni interpuntivi, l’attenzione dedicata all’ekphrasis, al modo di incorniciare visivamente le parole, quella per la distribuzione dei versi nella pagina riferiscono di una propensione antiaccademica, forte della lezione di alcuni esponenti della corrente avanguardistica del Gruppo 63i che avevano propugnato la rottura e il superamento di schemi e stilemi tradizionali. Con la Ferraresso, si esce fuori dalla cornice della classica riproduzione testuale tardoromantica e si rende evidente il passaggio ad una scrittura visuale e più vicina alla prosa. Una scelta che comunque si adegua al contenuto che l’Autrice vuole esprimere, in tutta la sua drammaticità.
È l’Autrice stessa, nei versi posti in epigrafe al testo, a chiarirne l’ambito:
per strade lunghe e un lungo silenzio
faccio ritorno a casa dove non sto dove non vivo e non ho più
cose con lo spazio dentro né abiti nell’armadio del ricordo il viaggio la passione tutto arriva e lignifica
una corteccia folgorata la mia scorza come una buccia la vita staccatasi dalla mia pianta
e persino le parole che mi scheggiano da dentro l’osso
altro non sono che il mio vuoto corpo
espostosi al vento
L’opera dunque intende narrare le linee di un ritorno a casa nelle parole dopo un lungo silenzio causato da un’esperienza dolorosa che ha ridotto il corpo a un a scorza vuota.
Quel che se ne trae a una prima lettura è la trasposizione d’una ricchezza interiore sconfinata che si acquisisce in virtù dello smarrimento d’una personale compiutezza personale e dei propri riferimenti, quando subentrano sperdimento, confusione, e ci si abbandona e disperde nei sentieri del cosmo.
Il Poema si presenta come un’unica Domanda rivolta al lettore, ad un lettore che in qualche modo si ritrovi in quella stessa interrogazione, e assista all’elaborazione del lutto per una perdita straziante, nell’idea che il lettore sia mezzo e fine della parola e partecipi alla celebrazione d’una perdita smisurata a causa della quale il Soggetto poetante si perde e vaga nell’infinito, diluito, imbevuto nella coscienza del mondo.
C’è una porta
c’è una porta o meglio riconosco il disegno di una porta
che, come quella di Empedocle, conduce alla Notte
buia la sua notte si fa ponte
si entra nella notte dove ogni cosa si confonde, e la poetessa si fa portatrice di una divinità anonima (come per Parmenide e per Eraclito) o testimone di un viaggio astrale
nella notte immergo le mani
nel cuore dell’erba voglio toccare il mio ventre preistorico e fossile voglio arrivare
a sentire il germoglio
il mio corpo come un grano di trifoglio il mio corpo in erba
che ancora conosce il territorio delle stelle
le onde del ramo più alto
dove il cosmo è un albero
e il legno ha l’odore di tutti i natali di tutti gli esseri
che diedero un corpo al mondo
il grande respiro delle messi
il duro roccioso sussurro delle montagne
il ventre gonfio delle nuvole
le guance rosse delle rose
le mani protese delle fiamme
le piccole attrezzerie dei ghiacci eterni
le volute d’argento delle anatre che migrano prima dell’inverno tutte le piume dei sorrisi dei neonati che vedono ancora
dove si apre questo pane da mangiare
che sanno raggiungere l’oro dei sogni in cui poter volare.
Si potrebbe ipotizzare un’esperienza, quella del viaggio astrale, o extracorporeo, che lo libera come cavità capace di diventare cielo e universo
e mi domando se anch’io dal cielo
esco cavo (p. 39)
senza pensiero
che anch’io sono
in quel felice trasloco (di) universo (p. 41)
La sperdutezza fa sì che l’io si dissemini, si riversi ovunque, compia una sorta di dismissione continua e incessante per estendersi nell’aspazialità cosciente della Natura e del cosmo, senza più un limite che possa contenere l’emorragia dell’io verso il Sé:
me ne sto davanti
a me stessa come a una finestra
ma non entra che cielo e alberi
di cui sento un dolore profondo
io che con te li vedevo fiorire
ora li sento morire (p. 65)
l’anima tirata da tutte le parti (p 66)
la poetessa si chiede il ruolo della parola che ricorda e tiene in sé la liberazione del corpo ma anche il ricordo del dolore
un lenzuolo la parola
persa per strada
ha cercato in me un luogo dove riconoscersi? (p. 66).
Bisogna aver pazienza e attendere che dal magma delle parole riemerga la verità: un lacerto di verità, perché la realtà stessa non esiste, e la verità appartiene a un mondo che forse non c’è più, e che dunque non è mai stato, essendo ormai un altro da quello che si vive:
le parole
punte di stili
per scivere
che cosa sanno scrivere
le parole.
L’Autrice denuncia le parole nel loro mancare sempre all’appuntamento perché non hanno vita, non sanno scrivere, non sono cioè mai se stesse, non hanno vita né corpo, le parole che hanno “i fiati che gli diamo” (p. 67):
se le parole si perdono che fanno se nessuno le ritrova?
Amore ha perso il terminale
tutto è avvizzito persino la vipera scappa
e il falco si allontana alto altissimo.
Se le parole non vengono ritrovate, perfinociò che le parole connotano, si allontanano – le poesie vengono svendute nel supermercato condannate al macero del nostro poco o niente.
La Ferraresso definisce in pochi versi il senso della scrittura:
io so che scrivere è tenere la morte sulle ginocchia e
guardandola in faccia
aprire lo spazio in cui ci circoscrive
(…)
personaleinterrogazione al luogo
che senza tempo nello spazio del limitare del gesto
sul telo bianco dello sguardo proietta il molteplice sussurro
l’infinito rifrangersi delle eco perché altro senso non c’è
per noi che viaggiamo insieme al tempo (p. 58),
e delinea le coordinate di un amore con versi che mi hanno profondamente toccato:
spalancami la voce – gridai
mettile dentro vento
nel mio respiro disegna una stanza
di tutte le onde dei paesi fatta e delle rocce che colano a picco
le azzurre profondità di tutti i miei corpi sottili e instabili
me stessa una storia dietro l’altra
un gesto dopo quello che fu il primo
in cui ho perso la montagna che sono stata
e tutte le sue bestie la nuvola e il latte con cui furono create le foglie secche in cui sognando di vivere sono caduta
in altre storie cento mille milioni di volte
tutte quelle che stano nei tanti racconti che popolano le nostre labbra umane
senza sapere cosa significa vivere
mentre ci portano lontano da questo mondo da noi che di questo cosmo
abbiamo inevitabilmente lo stesso corpo senza vederne il deposito
di battiti in un cuore d’osso
(…)
e scavo farti scavo sapresti in un burrone di secoli e fosse
se fosse l’io il petrolio e l’olio il santo graal dell’universo
questa coppa divisa in coppie
tu e io
le sante trucidate e io menomata
mai amata sognata desiderata martirizzata
io croce di me stessa io chioccia e fioca luce senza lampada
tuo no io onda che erode
ogni sponda la fibbia che infibula l’orda
lo stato di un essere colla e voragine aperta fiore maiuscola acqua e poi goccia
grotta cavallo che trotta rituale del passo
che solca il suo salmo che segna scordato il passaggio
(p. 58)
Non si possono non citare i versi più belli:
senza comando ogni avventura giunge nel porto dove altri venti soffiano
e gli uomini non leggono quelle cose
che pure sono segnate sulle mappe delle loro rotte
come fieno secco sparso sulla terra
ogni indizio dissemina nell’aria il suo ultimo profumo un incenso sottile che induce al sonno
come mai giorno o notte seppero tornire e dove vivere è vegliare dentro un sogno
riducendosi allo stremo delle forze oltre tutte le burrasche
e gli eventi che il destino ci riversa
il corpo viaggia come in naufragi da cui mai fare ritorno
esistono davvero le cose di cui parliamo?oppure tutto è una follia che chiamiamo ragione e di questa ci nutriamo inconsapevoli
mantenendo il nostro continuo torpore convinti che sia veglia questo nostro nutrirci dei semi del tempo
che ci penetra e ci scioglie da tutto quanto eravamo prima per renderci leggeri come spore nell’aria o nell’acqua che si disperdono (p. 71);
versi che, per la loro bellezza e la loro profondità, commentarli sarebbe un crimine.
E ancora:
scrivere è rompere lo specchio mandare in frantumi se stessi tutti gli io nascosti dall’altra parte
di una superficie impraticabile
la biblioteca dell’ignoto che noi tutti siamo
la curva dentro il rettilineo che disegniamo nel silenzio
profondo in cui ci disperdiamo e quando nemmeno te lo aspetti quella felicità improvvisa
si apre praticabile nella tua stessa carne (p. 73).
Scrivere è rompere lo specchio degli io nascosti dall’altra parte per scoprire che siamo tutti lo stesso uomo:
–eppure ognuno camminando
in sé può trovare quel pezzo di terra sgombro quella lingua analfabeta che scrive
in un corpo solo – aggiunsi e seguitai imperterrita
–ciò che ci unisce è ciò che è distanza
necessaria per portare ciascuno all’altro orto sé stesso perché l’uomo non è mai
individuo soltanto ma un essere continuo non contiguo non frammentario
se non per limitata visione
nella sua cecità abbagliante e nemmeno il nome designa nessun nome disegna confini noi siamo tutti
lo stesso uomo con (un) fine e per paura dell’ignoto
ci siamo allontanati e rintanati
in quella assurda grotta dei dilemmi
delle ombre illusorie e non tocchiamo più con tutti i sensi (p.76).
A pagina 79 c’è l’annuncio dello svelamento del giallo che si trascina per tutto il poema, qual è questo dolore che fa scaturire il diluvio delle parole?
Versi che parlano della felicità più completa:
sono rimasta lì
meravigliata dopo una giornata persa a parlare inutilmente d’amore e poesia
sono rimasta bloccata a vedere quei due
che in mezzo alla strada si sono messi a ballare
alle quattro di mattina con un cane e qualche gatto randagio con il metronotte che fischiava un’aria da balera
quando era ancora buio il giorno.
Versi che parlano dell’innamoramento, cioè di quella unica inimitabile esperienza che marchia per sempre una vita e la rende un’avventura dei sensi, dell’anima, del mondo, della libertà, dell’apertura completa di una condizione magica, miracolosa. Ebbene si è pronti alla rivelazione, alla scoperta del mistero, che avviene a pagina 90, e che naturalmente non si esplicita, lasciando al lettore il desiderio di leggere fino in fondo un libro che fa venire la pelle d’oca. Un critico di valore non dovrebbe esprimersi in questo modo, ma la trasgressione è doverosa, l’opera della Ferraresso merita i dovuti apprezzamenti; la poesia in Italia è diventata una vetrina per pochi nomi che hanno dimenticato il valore della sperdutezza, del profondo esilio che il vero poeta custodisce dentro l’animo. La verità personale è scomparsa dal mondo della poesia e sono rimaste vane professioni di fede senza contenuti:
nel mondo ordinario in cui viviamo sempre assetati di potere
perché troppi uomini non hanno mai conosciuto il tempo di
quando due creature s’incontrano
e si preparano a restare insieme
tutto il mondo dei viventi resta in ascolto perché sa
in quei momenti un flusso di energia trascorre sopra tutti
por actividad subversiva unida a resistencia forestal agravada será penalizado
quien maliciosamente cubre con velos los objetos destinados al enlucimiento de las vías públicas quien induce a una mujer a consentir el acceso carnal o quien provoca en ella algún otro comportamiento errático quien obstaculiza el control de las telecomunicaciones quien intencionalmente produce edulcorantes
quien omite el uso de ciertas formulas de aseveración quien ha padecido sífilis sin el permiso de la autoridad competente quien coloca objetos encima de una vía acuática quien se ausenta más de tres días calendario
quien en una estación de ferrocarril disminuye mediante corte el tamaño de un miembro corporal importante de algún funcionario público quien emprende la formación de aviadores quien establece cajas para viudas quien exhibe las condecoraciones en forma minimizada
quien ridiculiza las autoridades después de un análisis concienzudo quien participa en un motín quien…
Cento sonetti indie di Luca Alvino, libro di poesia uscito nel 2021 per i tipi di Internopoesia, con un’autorevole presentazione di Paolo Di Paolo, costituisce l’opera prima di un autore che può vantare saggi su Roth, Yehoshua, Salter, D’Annunzio e tanti altri.
Si tratta di un testo apparentemente semplice, immediato, “indie”, e cioè indipendente, libero, non appartenente a moduli consueti; in verità appartiene alla migliore tradizione italiana, a coloro che si sono dedicati alla difficile arte della composizione di “canzonieri”: si ritrova in Alvino, paladino di una pratica difficile e faticosa, l’abile maestria propria di Petrarca e Tasso, di Gozzano, Saba, Penna, Pasolini.
Oggi il vero autentico poeta vive la sua vocazione in modo del tutto singolare, isolato, percosso e martoriato da una sensibilità eccessiva e tormentata che lo allontanano dal resto della specie, troppo impegnata a esaltare il proprio Narciso, a soddisfare le proprie ambizioni e le proprie avidità.
Mi accade di incontrare poche personalità che si dedicano alla poesia con assoluta dedizione, con passione e rigore, amanti della parola nel suo unico splendore, nella sua sacralità numinosa, ma anche nel suo pudore, nel suo rivelare l’intimità, l’abbandono, nel suo farsi evocazione, prolungamento della voce, canto libero; pochi sono gli eletti che fanno del verso – di ogni verso – l’ultimo e definitivo (qui rimando al mio testo critico posto in chiusura di “Anonimie”, dal 13 gennaio in libreria). Penso a Marco Tornar, a Vivian Lamarque, a Massimiliano Damaggio, a Elio Pecora, a Giuseppe Rosato, a Daniele Mencarelli, Daniele Piccini, Patrizia Valduga, Marilia Bonincontro, Ginevra Bemporad, Anna Ventura, Gabriella Sica, Emilio Rentocchini, Gabriele Tinti, Fabio Franzin, Pasquale Vitagliano, Adeodato Piazza Nicolai, Francesco Sassetto, Adam Vaccaro, Gabriella Galzio, Leopoldo Attolico, Federico Sanguineti, Umberto Fiori, Giuseppe Conte, Roberto Mussapi, Franco Loi, Marcello Marciani, Tino Di Cicco, Francesco Granatiero, Marilena Ingranata, Mia Lecomte, Gezim Hajdari, Manuel Cohen, Roberto Deidier, Maria Borio, Maria Grazia Calandrone, Nino Iacovella, Raoul Precht, Plinio Perilli, Stefano Guglielmin, Claudio Comandini, Eugenio Mazzarella, alle giovani e ai giovani Erica Gazzoldi, Ambra Simeone, Antonio Bux, Daniele Gigli, Alberto Trentin, Valentina Calista, Barbara Giuliani, Julian Zhara, Matteo Veronesi, Ivan Pozzoni, Anna Maria Curci, Raffaele Niro, Federico Romagnoli, Daniele Barbieri, Alessandro Canzian, Chiara Daino, Nicolas Cunial, Enrico Marià, Jacopo Curi, Maria Luigia Longo, Marko Miladinovic, Massimiliano Bardotti, Menotti Lerro, Riccardo Bertolotti, Tommaso Meozzi e a tanti altri che hanno costellato e vivificano la mia esistenza con la loro spontanea pura autentica poesia.
La tenerezza, la semplicità, la domesticità, l’intima religiosità che solo la vita e il mondo donano, sono i contenuti del canzoniere alviniano, dove lo zelo per la verità personale, il rispetto della propria debolezza, la fedeltà alla malattia, la cura con cui viene descritta, la pazienza con cui viene sopportata e la meraviglia con cui si assiste a una vicenda che poi accade a chi la racconta, la ossessiva precisione con cui si descrivono patologie e rimedi, ebbene tutto questo appare straniato e straniante, delicatamente accarezzato anche nei momenti più difficili e duri; quel che di proditorio, ingannevole e minaccioso contiene la quotidianità diviene fonte di un mistero che si confida al lettore, proponendogli la propria accettazione profondamente spirituale e animalesca, istintiva e immediata. I sonetti rendono efficace lo stato emotivo di un’attenzione vigile e delicata nei confronti della vita, considerata in tutti i suoi risvolti minimi e avvincenti, perché indossati da un protagonista che ci confessa, anzi ci confida, le sue suggestioni, le sue riflessioni con una cadenza musicale, ritmica, che addolciscono il paesaggio complessivo. Ebbene questa è la parola chiave dell’intera raccolta alviniana, una delle parole che la nostra società ha rimosso (perfino nei ristoranti non chiediamo più il dolce, ma il dessert): dolcezza. Il canzoniere di Alvino, profondamente commovente, è percorso da una infinita dolcezza. La vita e la morte non fanno paura ad Alvino, che sembrerebbe un ansioso depresso, tutt’altro, egli non ha paura della fine ma sente solo sconcerto per l’imprevedibile, e nutre una profonda fiducia nell’oltre, la sua fede nel Signore è per dolcezza.
Non anticipo alcun verso di Alvino, il mio è un invito a leggere questo splendido libro, che mi ha ricordato Ruggero Guarini, da me profondamente amato.
Ci si sente migliori, puliti, lavati e profumati di fresco, dopo la lettura dei cento sonetti di Luca Alvino.
La più recente opera cinematografica (ancora nelle sale, per chi volesse approfittarne della visione sul grande schermo) La stranezza di Roberto Andò, è il primo film contraddistinto da una perfezione adamantina a cui ho assistito nella mia veste di cinefilo, un capolavoro che si inserisce con prepotenza nel novero dei classici della settima arte, per l’insieme degli elementi che ne compongono mirabilmente la complessa struttura e ne rendono omogeneo il tessuto – uso delle riprese e inquadrature, apparato sonoro e sottofondo musicale, scenografia e ambientazione, costumi, ritmo, recitazione, scenografia, fotografia.
L’accentazione sonora, il dialetto siciliano, la colonna musicale, soffusa, appena accennata, il colore ombrato, caravaggesco e fuligginoso del fondale, le sequenze (primi e primissimi piani) dirette a indagare le espressioni più intime e a svelare i volti e infine il nodo del tema affrontato, quello della finzione teatrale, a cui viene offerta una soluzione magica e sorprendente, concorrono a determinare il valore di un’opera memorabile di cui è soggetto protagonista Luigi Pirandello, il quale, alle prese con la stesura dei Sei personaggi in cerca d’autore, impelagato nelle sabbie mobili di una crisi che gli blocca l’ispirazione creativa, è costretto a tornare nel paese per assistere ai funerali e provvedere alla tumulazione della sua vecchia balia, quando, incontrati due addetti alle pompe funebri, animatori di una piccola compagnia filodrammatica locale, incuriosito dalla loro singolare bizzarria, si trova ad assistere alla prima dello spettacolo, nel bel mezzo di un vero e proprio psicodramma collettivo, nel corso del quale uno spettatore interrompe la rappresentazione accusando gli attori di aver inscenato una parodia della sua esistenza per screditarlo, provocando una serie di incidenti che scoprono sotterfugi, piccoli segreti, casi di infedeltà coniugale e di malversazioni tipici della Sicilia come del Paese tutto.
Appare chiara la denuncia di una vetusta ed incancrenita condizione di degrado politico e morale, di soprusi pubblici e privati a cui ormai il nostro Paese si è fatalmente rassegnato; viene irriso il comportamento meschino degli individui, debolezze, arroganza, maschilismo, servilismo, la sudditanza delle classi economicamente più forti al potere corrotto.
Il tema predominante è quello della finzione letteraria, che assume un rilievo filosofico, nel film. Rendere plausibile quel che non è, è la presunzione di ogni scrittore, rendere credibile la finzione. E se fosse una caratteristica non solo degli uomini di lettere, ma di ogni uomo, che vive nella finzione, accumulando piccoli segreti di cui si vergogna, che costruisce vicende proibite e trasgressive per mantenersi vivo? L’uomo inganna gli altri e/o il suo prossimo per credere a se stesso, costruisce le impalcature di una seconda vita, basata sulla finzione, per poter nutrire fiducia in una propria verità: su di un piano che è quello della realtà. Al contrario, lo scrittore agisce in un contesto immaginario, costruendo una finzione dentro un’altra finzione, e questo film è una matrioska, uno splendido contenitore del tema.
La finzione è una delle qualità proprie dell’uomo, il quale non solo inganna, doppio e ambiguo, ma è capace e forse deve anche ingannare se stesso, per sopportare la mistificazione dell’esistenza.
D’altronde, Pirandello/Servillo suggerisce di essere prigioniero della follia della moglie, e forse solo un prigioniero della follia altrui può comprendere fino in fondo l’essenza della creatura umana.
Ad oggi sono molti i cittadini in tutto il mondo che decidono di acquistare ed utilizzare i monopattini elettrici. Le motivazioni possono essere molteplici. C’è chi è guidato da ragioni relative alla salvaguardia dell’ambiente e quindi alla riduzione delle emissioni di CO2, e chi invece ragiona in termini di pura praticità. In entrambi i casi, negli ultimi anni, questo fenomeno si è tradotto in un aumento drastico delle vendite di monopattini elettrici. Di conseguenza, il governo ha dovuto sviluppare delle linee guida volte a regolamentare l’utilizzo di questo nuovo mezzo di trasporto.
In particolare, lo scorso 18 Agosto è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Dirigenziale relativo ai monopattini a propulsione elettrica. Questo, stabilisce le caratteristiche tecniche del veicolo e, in particolare, dei dispositivi di cui devono essere dotati per poter circolare liberamente.
Quando entrano in atto le nuove regole
Per cui, a partire dal 1° Ottobre 2022 i monopattini elettrici nuovi commercializzati in Italia, dovranno soddisfare le regole imposte dal Decreto introdotto del Ministro delle Infrastrutture. Per quanto riguarda invece i monopattini elettrici già in circolazione, questi dovranno essere adattati alle nuove regole entro il 1° Gennaio 2023. In caso contrario, i trasgressori saranno soggetti al pagamento di una somma di denaro che va dai 40 a 160 euro. Le novità introdotte riguardano 3 macro aree:
Caratteristiche tecniche generali
Impianto frenante
Luci, catadiottri e segnalatore acustico
Caratteristiche tecniche generali
Per iniziare, vengono elencate le dimensioni minime dei pneumatici (min. 203,2 mm) e quelle massime del veicolo. Queste non devono eccedere i 2 metri di lunghezza, il metro e mezzo in altezza e, compreso il manubrio, la larghezza non può eccedere i 75 cm.
Inoltre, la potenza nominale massima del motore elettrico non deve eccedere i 0,5 kW. Inoltre, per salvaguardare la sicurezza dei pedoni, il veicolo deve essere dotato di un regolatore di velocità, che dovrà essere configurato in base al limite di velocità attualmente stabilito. In merito a questo Decreto, sono parecchie le lamentele relative ai limiti di velocità imposti. Infatti i conducenti dei monopattini elettrici non possono superare i 6 km/h nelle aree pedonali e i 20 km/h negli altri casi.
Impianto frenante
In aggiunta, i monopattini elettrici devono possedere il freno su entrambe le ruote. Per cui l’impianto frenante deve essere indipendente per ciascun asse e dunque poter agire sia sulla ruota anteriore che posteriore, garantendo una maggiore sicurezza a chi conduce il veicolo.
Luci, catadiottri e segnalatore acustico
Per ultimo, i monopattini devono essere dotati di:
Segnalatore acustico,
Frecce di svolta (indicatori luminosi di svolta)
Una luce bianca o gialla fissa anteriormente e una rossa fissa posteriormente
Catadiottri rossi posteriormente e gialli sui lati del veicolo.
In particolare, il suono acustico deve poter essere percepito fino a 30 metri di distanza e le frecce devono essere di colore giallo ambra e lampeggiare con una frequenza compresa tra 1 e 2 Herz. Queste devono essere applicate sia sul fronte anteriore che posteriore ad un’altezza compresa tra i 150 mm e i 1400 mm, così come la luce rossa di arresto.
Per quanto la domanda di questi veicoli sia aumentata drasticamente, occorre considerare le conseguenze che la crisi del mercato energetico ha sulle performance e sul futuro andamento dei monopattini elettrici. Questo è a rischio, infatti molti cittadini per cercare di risparmiare sono disposti a cambiare fornitore di energia e a rinunciare a comodità che non sono essenziali al momento. Per cui, se le regole da rispettare continueranno a cambiare e a diventare sempre più restrittive, è possibile che coloro i quali ad oggi sono disposti ad utilizzare un mezzo di trasporto come il monopattino elettrico, scelgano alternative diverse.
La delicatezza del tocco e il sapiente uso del ritmo in Quasce na storia (Menabò, Ortona, 2022) sono alcuni degli elementi che rendono preziosa una scrittura che lascia spiccare la lingua del parlato, la voce dell’infanzia, il dialetto abruzzese nella sua vera autentica dinamica espressiva configurata all’interno della commedia quotidiana, della conversazione, della frugalità contadina, della dolcezza e dello struggimento contenute nell’innamoramento, nell’incantamento di fronte alle vicende naturali. Sono le voci del passato che tornano a redimerci dal sonno d’una quotidianità povera di sentimenti per donarci composizioni sublimi di un poeta semplice ed elegiaco, abituato ad una ferrea disciplina, quella della resistenza poetica al mondo.
La raccolta mette insieme gli inediti scritti dal Civitareale dal 1955 al 2021. (Massimo Pamio)
Ecco un assaggio tratto dalla raccolta di Pietro Civitareale:
da Serenatellle (1971-1984)
V
Mò pe’ l pine, mò pe’ la muntagne,
j’améure méjje sempre sìule dorme.
Tu sci lu palumbucce de la vigne,
j’ so’ la vularelle de la forme.
Addjie, addjie, i n’autra vote addjje.
La luntananza taije, la pena maije.
(Ora per la pianura, ora per la montagna/ l’amore mio sempre solo dorme./ Tu sei il colombaccio della vigna/ io sono la libellula del ruscello./ Addio, addio, e un’altra volta addio./ La lontananza tua, la mia pena.)
Un profumo intenso, l’accecamento del sole, il flagello del vento, sotto un ideale albero d’ulivo, pagine d’ulivo intarsiato, parole d’ulivo, e tutto ruota attorno, e nulla riposa, nel cammino naturale del mondo, a cavallo del tempo. Sono le suggestioni che mi hanno donato le poesie di “L’arbulu nostru” poesie di Giuseppe Cinà (La Vita felice, pp. 138, pref. di Velio Abati, 14 euro), che recano il ruvido, scabro, essenziale sguardo delle maschere di Antonello e di Vincenzo Consolo; una natura sopravvissuta agli Dei nella crudeltà e nel bisogno carnefice di vivere.
(Massimo Pamio)
Poesie di Giuseppe Cinà da L’arbulu nostru
La cugghiuta e lu pittirrussu
Spunta
anticchia arrassu
poi satarìa
cantu cantu l’alivara
si ferma, a finta d’abbiccari
nni squatra mpittatu e accortu
cerca cumpagnia
cuddìa
e cu lu pizzu s’azzizza li pinni
namentri ca cripitìanu cutuliati
li virdi gemmi maculati d’autunnu.
Poi va, torna
e vulannu si mprofuma
cu sti iurnati frischi
di San Martinu
ma periculusamenti s’abbicina
mmenzu a la riti già aisata di lu viddanu
c’havi ancora sangu cacciaturi.
La raccolta e il pettirosso
Arriva/ un poco discosto/ poi saltella/ al limitare dell’olivo/ si ferma, finta di beccare qualcosa/ ci studia impettito e vigilante/ cerca compagnia/ rigira il collo/ e col becco s’accomoda le penne/ mentre crepitano bacchiate/ le verdi gemme macchiate d’autunno.// Poi va, torna/ e nel volo s’improfuma/ di queste fresche giornate/ di San Martino/ ma pericolosamente s’addentra/ nella rete già sollevata dal contadino/ che ha ancora sangue cacciatore.//
Cu amurusanza
Quannu cogghi l’alivi
un spugghiari l’àrbuli completamenti
pigghia sulu chiddu giustu.
Quannu la natura arma li so cunviti
li mmitati un semu sulu nuatri
idda havi a nutricari a tutti
allura lassa chiddi cchiù àvuti
ca sunnu puru difficili di cògghiri
e si chiovi ti vagni finu a li sciddi,
lassali cu amurusanza
sarannu manciari pi na Proserpina nustrali
e certamenti pi li turdi e lu pipituni.
Napocu finirannu nterra
criscenti pi sparaci e funci di ferla
rigulìzzia di li vurpi.
Con generosità
Quando raccogli le olive/ non spogliare gli alberi del tutto/ prendi solo il giusto.// Quando la natura provvede i suoi banchetti/ gli invitati non siamo solo noi/ lei deve nutrire tutti/ e allora lascia quelle più in alto/ che sono anche difficili da raggiungere/ e se piove ti bagni fino alle ascelle,/ lasciale con benevolenza/ saranno cibo per una Proserpina nostrale/ e di certo per i tordi e l’upupa.// Molte cadranno a terra/ lievito per asparagi e funghi di ferula/ liquirizia delle volpi.//
Tri frati
La granni chianca di unni crìscinu
l’ammustra, sunnu figghi di lu stessu patri
c’anticamenti un fùrmini lu squagghiò
ma campò cu novi razzini sarbaggi.
Un viddanu fici tri nziti
tri novi àrbuli crisceru vicini e forti
ma àvutri fochi distinaru diversi sorti
unu s’abbruciò
un àvutru turnò sarbàggiu
e unu sulu, cuttuttu c’arristò lesu
esti vivu e continua a fari fruttu.
Unu dici “ma chi c’è di fari?”
Sarbari li vivi (nzitari arreri lu sarbàggiu)
e vurricari li morti (tagghiari chiddu abbruciatu)
chistu tocca fari.
Tre fratelli
Il grande ceppo da cui crescono/ lo rivela, sono figli dello stesso padre/ che anticamente fu incenerito da una folgore/ ma sopravvisse con nuovi polloni selvatici.// Un contadino fece tre innesti/ tre nuovi alberi crebbero vicini e forti/ ma altri fuochi decisero diverse sorti/ uno è bruciato/ un altro è tornato selvatico/ e solo uno, benché leso/ vive e continua a dare frutti.// Uno si chiede “ma che possiamo fare?”/ Salvare i vivi (innestare di nuovo il selvatico)/ e seppellire i morti (tagliare quello bruciato)/ questo tocca fare.//
Probabilmente anche la felicità, la gioia, il piacere, così come l’infelicità, il dolore, la paura nascono da uno strazio, vale a dire da un processo di smembramento, lacerazione che conducono dal precedente a uno stato nuovo del vivere; nel libro in poesia di Massimiliano Damaggio Io scrivo nella tua lingua (Editrice Zona, Genova 2022 con traduzione a fronte in greco di Giorgia Gina Karvunaki e con una nota critica di Mia Lecomte) lo strazio di un’infanzia determinato dal rapporto con la madre e dalla personalità di quest’ultima innerva i testi in versi – ma non si pensi che si sia innanzi a un ennesimo libro che tematizza il rapporto madre-figlio perché l’arduo azzardo di Damaggio consiste proprio nell’affrontae un tema ripetutamente battuto (anche troppo, a mio avviso) e di convincere (e avvincere) chi legge in virtù di una scrittura controllatissima, cui…
Losanghe di cieli, cieli di gesso, vecchio terrore che indosso ogni giorno; muraglie da cui sempre mi ritorna questa mia strenua voce d’ossesso;
e libri, voi, paradisi dipinti, reticolati d’assurdo quaderno, trionfo e sbarre di carcere eterno, fughe immobili e nero labirinto:
oh mescetevi, carte, firmamenti, memorie; fate rissa entro di me, e inventatemi un nome, un altro viso.
Ora che lei m’ha parlato alla mente, lei nel suo scialle di sposa di re, con gli stupori e i corrucci e le risa…
~
(A chi lo sa)
S’io sapessi cantare come il sole di giugno nel ventre della spiga, l’obliquo invincibile sole; s’io sapessi gridare gridare gridare gridare come il mare quando s’impenna nel ludibrio d’aquilone; s’io sapessi, s’io potessi usurpare il linguaggio della pioggia che insegna all’erba crudeli dolcezze… oh allora ogni mattino, e non con questa roca voce d’uomo, vorrei dirti che t’amo e sui…