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“Nella carne dei miei sogni” di Gambacorta-Di Iacovo, una lettura di Federica D’Amato


Giovanni Di Iacovo – Simone Gambacorta

“Nella carne dei miei sogni

Colloqui tra uno scrittore ed un cronista letterario”

Duende Edizioni, Teramo, 2012

Nota critica a cura di Federica D’Amato

 

Giungono al numero sei i “Piccoli quaderni, Testi e materiali sulla letteratura in Abruzzo” (Duende Edizioni), collana di delizie letterarie abruzzesi sospese tra autobiografia e critica militante, curate dall’infaticabile Simone Gambacorta, “cronista letterario” teramano che in questi anni sta sviluppando un progetto culturale di assoluta qualità intorno ai fatti letterari della regione, con inedite prospettive di respiro nazionale. E proprio all’insegna della libertà, del sogno, della passione per la vita come narrazione continua si apre il sesto appuntamento, “Nella carne dei miei sogni”, che vede come protagonista del colloquio uno dei nostri più validi scrittori, Giovanni Di Iacovo. Un Di Iacovo in premessa quasi impacciato dalla necessità del mettersi a nudo che Gambacorta sistematicamente esige con le sue domande, un Di Iacovo che sa: “Gambacorta voleva che io sputassi anche i miei difetti, le mie difficoltà, le mie debolezze, il mio sangue versato. E capii che sarebbe stato utile. Utile per me, per capirmi, per fermarmi a fare il punto dei miei primi trentasei anni di scrittore e di essere umano”. Da siffatta agnizione, dalla candida confessione “l’amore per la scrittura ha coinciso in me con l’amore per la vita in ogni sua manifestazione” – usuale per uno scrittore vero, ma mai banale nello svelamento -, si sbroglia tumultuosa la corsa del botta e risposta, tra un critico letterario che chiede e chiede perché vorrebbe possedere innata l’arte del narrare, ed un narratore che risponde perché vorrebbe possedere innata l’arte del tacere – il silenzio, si sa, è l’amante perfetto di prosa e poesia: tale forse il valore autentico di questa breve pubblicazione che, come le altre della collana, pone in essere il vero fronte che sussiste tra l’indagatore, il decifratore, l’esegeta, l’erudito, il postino direbbe George Steiner, ed il suo oggetto, ossia l’avventuriero, il genio, l’innocente, il demone, l’esecutore, il demiurgo inconsapevole di mondi, il rievocatore. Il fronte di confine ma mai di rottura che struttura uno stesso paesaggio, un eguale amore, quello per la letteratura.

Si evince con semplicità dalle tre sezioni del libro, i primi formati intorno ai due romanzi di Giovanni, Sushi Bar Sarajevo (Palomar, 2006) e Tutti i poveri devono morire (Castelvecchi, 2010), il terzo animato da quello che sembra essere ormai da anni il leitmotiv dell’attività culturale e politica di Di Iacovo, “Consumare culture è la benzina della creatività”, sorta di calderone, che rappresenta nell’insieme anche la parte più interessante del testo, in cui lo scrittore abruzzese parla della sua primissima gioventù, dei viaggi, dei romanzi amati, del suo modo di lavorare, di cosa significa essere e non essere scrittori, dell’evoluzione che tali significati hanno avuto nello svolgimento di un “artigianato artistico” vocato alla maturazione di direttrici culturali di sicuro interesse ed esempio, almeno per chi in Abruzzo intenda senza provincialismi ed egotismi masturbatori, cimentarsi seriamente con il mestiere di scrivere.

Giovanni Di Iacovo e Simone Gambacorta saranno presenti a Chieti il 6 Settembre alle ore 18, per presentare “Nella carne dei miei sogni”, all’interno della manifestazione Chieti Mostra Libri 2012

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Giovanni D’Alessandro intervistato da Federica D’Amato


 

Giovanni D’Alessandro e il genius casae

Intervista di Federica D’Amato

 

Chi ha avuto il buon senso di leggere i libri di Giovanni D’Alessandro, è abituato a bellezza, qualità, soprattutto libero gioco della potenza narrativa, che in termini spirituali potremmo tradurre con la parola “sospensione”: del tempo-cinghia stretto nella carne, del dolore, delle preoccupazioni, del destino di morte cui siamo condotti, proprio vivendo. Ebbene, tutto questo avviene, come in ogni vera letteratura, nella catarsi che la penna di D’Alessandro ci dona, in special modo con Soli, il suo ultimo romanzo edito da San Paolo Edizioni nel 2011, la cui felicissima frequentazione mi ha spinta a immaginare questo mio illustre corregionale, seduto, solo, nella sua stanza, o in cucina o in veranda, o addirittura disteso sul letto, a scrivere, costruire la cattedrale di una storia che nella coerenza epica del suo svolgimento, dispiega la forma “romanzo”, oggi in Italia così abusata, incollata su prose (da editor) che al massimo possono essere considerati racconti lunghi.

 Ho percepito che il narratore D’Alessandro è tale perché egli ha la facoltà zen di vivere perfettamente il proprio altrove, la pagina sulla quale un giorno principia un personaggio e da lì l’universo; una tale capacità poteva provenirgli solo da un’abitudine antica, perduta dunque carica di valore: l’amore per la propria abitazione, il saper, voler stare in casa e da lì rifondare il mondo di immagini, il prendersi carico con pienezza delle personali coordinate antropologiche, storiche, mitologiche oserei dire. Dopotutto, una casa, cos’è se non questa ostinazione a ricrearsi, disfarsi, insomma esser-ci, per sempre? Forse da qui muove la ferrea riservatezza con la quale D’Alessandro avvolge gli interni delle sue case, preservate dagli occhi e dagli scatti indiscreti di chi con la sola intrusione dello sguardo romperebbe l’incantesimo, metterebbe in pericolo l’altrove magico della pagina. Nonostante tali accorgimenti, lo scrittore abruzzese ha accettato la  mia intrusione di domande, le cui relative risposte nella loro brevità rappresentano un piccolo verbario dell’amor domestico. Da leggere e rileggere, per approfondire la conoscenza di questo grande scrittore dei nostri tempi, ma anche per avvicinarsi ad una dimensione dell’essere prossima alla gioia della letteratura.

 

1)   Il concetto di casa racchiude in sé significati le cui sfumature sono difficili da definire in modo netto, soprattutto quando chi le interiorizza è un narratore della sua portata . Lei come la definisce?

La casa è il primo habitat di una narrazione. Le idee possono venire tra le sue mura o anche fuori, ma di certo diventano romanzo al suo interno, in un’attività che impegna l’autore per mesi, legandolo alla stesura di un romanzo. E’ dunque un’attività caratterizzata più di altre dalla compenetrazione con il contesto in cui prende forma. Impone una determinata fisicità. Richiede determinati strumenti. Rende necessaria una determinata organizzazione di partenza. E coinvolge dimensioni come creatività, emozione, previsione della ricaduta di ciò che sta nascendo lì, nella tua casa, dentro le case degli altri. Ciò che si sta digitando sui tasti è destinato a migrare in quelle case, dove verrà letto.    

2)   Dove vive Giovanni D’Alessandro? La sua infanzia da quale luogo e tempo è stata scandita?

Vivo e lavoro a Pescara da molti anni, ma mi sposto spesso e in determinati periodi lavorativi dell’anno risiedo nel nord Italia. Sono nato e vissuto molti anni a Ravenna, in Romagna, e ho avuto la fortuna di abitare in una grande casa che oggi ospita l’università, nel cuore della città, a cento metri dalla tomba di Dante, alle spalle di Sant’Apollinare Nuovo. Ma d’estate per lunghi mesi scendevamo in Abruzzo dove vivevano i miei nonni e qui trovavo la splendore della natura, con la campagna e i monti, che in Romagna, piatta com’è, sono un miraggio. Queste dimensioni – di arte e natura, devo confessare: bellissime –  hanno scandito la mia infanzia.

 3)   Qual è il luogo nel quale riesce a scrivere, il genius loci che da’ respiro ai complessi protagonisti dei suoi libri?

Il genius loci è per me assolutamente il genius casae. Cioè di casa mia. Non riesco a immaginare un altro posto dove scrivere. So di scrittori che in passato sono stati ospitati in residenze, magari da parte di un committente, di un protettore, di un mecenate, ma queste cose appartengono al passato e a un contesto sociale oggi tramontato. Se venissi ospitato in una residenza messa tutta a mia disposizione, penso che non scriverei una parola: prima dovrei appropriarmene, in senso psicologico. Inoltre mi verrebbe voglia di alzarmi e di esplorarla sia dentro sia fuori e la scrittura richiede disciplina, assorbimento, mancanza di distrazioni e attrazioni esterne. So anche di scrittori, come Tomasi di Lampedusa (che pure aveva un principesco palazzo a Palermo) o Magris i quali scrivevano o scrivono nei caffè. Come hanno fatto, come fanno? – mi chiedo. A parte il rumore, il fastidio del dover mantenere una certa postura senza alzarsi o la possibilità di incontrare persone da cui essere interrotti magari nei momenti di maggior concentrazione, io non potrei scrivere in un caffè palermitano o triestino, neanche nel più bello. Ghiotto come sono, mi alzerei di continuo a svaligiare la pasticceria ed esborsi a parte peserei 10 chili in più dopo ogni romanzo.

4)   Nel suo ultimo libro “Soli”, San Paolo 2011, la “grande casa” che ospita la narrazione sembra essere, sullo sfondo, l’arte medioevale, di cui lei è profondo estimatore e conoscitore. Ce ne parli.

Ci vorrebbe molto per parlare dell’arte, medievale e non, come casa dei sogni. Diciamo che in essa abitano la fantasia, la creatività, il messaggio – lasciato per noi secoli fa dagli artisti – lì sedimentato e che ci aspetta, per parlarci del sogno che abitò vite trascorse. Questo gli artisti di ogni tempo hanno consegnato all’arte. E’ la loro voce affidata all’opera contro il tempo, o meglio oltre il tempo. L’arte racchiude le identità alternative che sono dentro ognuno di noi e si liberano con le magiche alchimie prodotte tanto dalla scrittura quanto dalla lettura. L’arte medievale è uno scrigno di misteri. Non è solo una casa dei sogni. E’ una cassaforte di sogni.

 5) Con gli autori che l’hanno preceduta in questa intervista siamo giunti a conclusione che per uno scrittore, spesso, la vera “domus” è la pagina bianca, su cui scrivere e riscrivere la propria solitudine e passione. E’ così anche per lei?

Direi di sì, anche se la parola solitudine mi suona meglio se riferita al contesto in cui si scrive; meno, se riferita ai destinatari, i lettori. Uno scrittore “incontra i lettori” già su pagina, quando comincia a scriverla. E anche la parola passione richiede una precisazione. Indubbiamente c’è. Ma c’è anche molta fatica. Scrivere è faticoso e ben lo sapeva un noto scrittore che intitolò una sua opera Lavorare stanca. Quindi direi che è, molto più, disciplina e applicazione. Una parola latina sintetizza tutte queste dimensioni: studium.

 6) Il “felice deposito celeste / è una mobile casa della vita”, scriveva il poeta russo Mandel’štam. Come interpreta questi versi?

Francamente non capisco cosa volesse dire Mandel’stam. Forse che la vera casa cui è consegnata l’identità di ognuno è più il cielo della terra? Ma perché la chiama “deposito”? E perché questa casa viene definita “mobile”? Boh. Quando un verso, pur bello, significa tutto e niente, secondo me non funziona molto.

7) Quesito inevitabile: la casa di quale scrittore a lei caro vorrebbe visitare e/o abitare?

Il castello d’Ippolito Nievo. Ma solo visitare. Abitare, voglio abitare a casa mia, per quanto detto sopra.

 

 

 

 

Palazzo Corradini a Ravenna, casa d’infanzia dello scrittore

 

Federica D’Amato

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PAOLO LAGAZZI “OTTO PICCOLI INCHINI”, lettura di Federica D’Amato


OTTO PICCOLI INCHINI, di Paolo Lagazzi e Daniela Tomerini, Albatros Edizioni, 2011

Una lettura, di Federica D’Amato

La cosiddetta forma breve nelle varie declinazioni dell’arte è una prova difficile, una formula magica: spesso modulata per fortunata vocazione, a volte raggiunta con la lima degli anni, essa rivela l’umano nella compressione della noce, scatena ere di senso per contrasto. Averla, praticarla, tentarla è quell’esercizio spirituale – del respiro, che imprime vigore al proprio artigianato, nel distillato di chissà quali diluvi verbali, tradisce nel tramite il sospetto di una iniziazione. A cosa? Alla vita. Da qui, dall’essenziale, muove il piccolo libro di Paolo Lagazzi e Daniela Tomerini, Otto piccoli inchini (Albatros 2011), una collezione di otto forme brevi perfette, assolutamente libere e giocose nei risvolti tematici, semplici gesti di magnanimità che attraverso il breviloquio spogliano il mondo, la vita, dal suo inutile dolore. Tutti conosciamo Lagazzi come uno dei maggiori critici letterari italiani, rigoroso e infaticabile intellettuale che ci ha donato attraverso i Meridiani ritratti indimenticabili dei poeti Attilio Bertolucci e Maria Luisa Spaziani, del critico Pietro Citati; qui, nello spazio di appena cinquantacinque pagine, offre “a pochi, pochissimi amici” un omaggio personale “alla forza sovrana e misteriosa delle parole”, ma soprattutto “allo spirito zen, un viaggio che non  mi ha mai portato lontano dal mio destino, quello di essere sempre e solo un essere piccolo (paulus), un dilettante e un principiante in tutto, ma che mi ha insegnato a credere nell’incredibile”. In questo viaggio, costellato di interessi eterogenei, rilevante è la stella fissa della meditazione Zen, iniziata nel lontano 1978 e mai abbandonata, prima sotto la guida del grande Taisen Deshimaru Roshie, in seguito dell’allievo, Fausto Taiten Guareschi, cui è dedicata la seconda parte del volumetto: questo cammino, questa “iniziazione”, è estremamente palpabile tanto alla presenza corporea di Paolo Lagazzi, quanto alla sua assenza sulla pagina, una marca di “quieta inquietudine” inscindibile tra la franca sostanza del suo sguardo e i suoi libri, la ricerca letteraria, umana.

Lo scenario dell’intera argomentazione è la Natura, l’essere umano che ragiona sui minimalia ponendosi nei panni dell’altrove, vero ed unico luogo dell’a-fenomenico zen; la prima parte del libro, sul quale si concentra la presente lettura, si chiama infatti Voci tra il fuoco e il gelo  e raccoglie in forma scritta gli interventi che Lagazzi fece, nell’Agosto 2010, a Fahrenheit: il compito era quello di “illustrare cinque parole a mia discrezione del vocabolario italiano: rileggerle, esplorarle, sondarne i significati”. E’ in questa sede che si apre la bellezza piana, composita del dettato, alternata dalla levità dei disegni di Daniela Tomerini, consorte di Lagazzi, virtuosa delle arti pittoriche, che completano l’imago della significazione nell’epifania impaginata dello sguardo. Rispetto, Poesia, Follia, Magia, Leggerezza sono le parole, di volta in volta trattate con l’urgenza del chiarificatore, dell’ordinatore di senso, di colui che scorge dietro la sacra scienza dell’etimologia, la chiave d’accesso al recupero di quella che fu l’alta lezione montaliana della decenza quotidiana. Certo Lagazzi ha parlato a se stesso, oltre che all’uditorio del noto programma radiofonico, ha riportato in quota il proprio assetto di volo, le sostanze che hanno informato la regione mitica dell’infanzia attraverso Magia & Leggerezza, poi i bacini sconfinati di tali implicazioni nell’età adulta, nella prova, nel patto con le origini attraverso Poesia, Rispetto & Follia. Sarebbe superfluo riportare esatta la grazia di queste pagine, se è giusto che solo nella lettura in prima persona s’invera il miracolo della vera presenza; vorrei solo soffermarmi sulle implicazioni della parola “Magia”. Scrive Lagazzi “Se è vero che la magia, come il sacro, è un elemento permanente della coscienza umana e non solo uno stadio superato della sua storia, è verso forme di magia bianca, di magia innocente, libera dall’armatura fantastica della Volontà di Potenza, che tendono le fantasie di molti fra noi […] Da ragazzo anch’io, per qualche anno, mi sono esibito come prestigiatore in coppia con mio fratello gemello Corrado. Questa esperienza è stata cruciale per me: ancora oggi penso al mondo scintillante dei prestigiatori come a una riserva importante di sogni, come a un teatro della leggerezza nel quale ci è possibile riposare la nostra anima sottraendola per un po’ alla logica del potere e del possesso, abbandonandoci allo spirito della gratuità come a un tappeto volante tessuto dalle fate”. Orbene, magia come afasia, abbandono, briglie sciolte dalla potenza della nominazione, collegamento fulmineo con l’archetipo del nostro Genius: leggerezza (non a caso “leggerezza” è la parola successiva, l’ultima della serie). A riguardo vi è un breve scritto di Giorgio Agamben, contenuto in Profanazioni (Nottetempo, 2005), che tratta proprio di “Magia e felicità”: “Benjamin ha detto una volta che la prima esperienza che il bambino ha del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua incapacità di magia” […] Ciò che possiamo raggiungere attraverso i nostri meriti e la nostra fatica non può, infatti, renderci veramente felici […] Per essere felici bisogna mettere dalla propria parte il genio nella bottiglia, tenersi in casa l’asino cacabaiocchi o la gallina dalle uova d’oro”. Lagazzi non accenna a tutto ciò? Non c’è da cogliere che un luminoso parallelo del sentire? Non vi è che da acquisire un fondamentale insegnamento? Quell’abbandonarsi allo spirito della gratuità è il Parsifal che sfinito entra nel non-luogo del Santo Graal, è “la creatura restituita all’inepresso”, ci dice Agamben: “La magia non è conoscenza dei nomi, ma gesto, smagamento dal nome […] Avere un nome è la colpa. La giustizia è senza nome, come la magia. Priva di nome, beata, la creatura bussa alla porta del paese dei maghi, che parlano solo coi gesti”.

Otto piccoli inchini, otto piccoli modi di respirare tra il prima e il dopo del reale.

Buona lettura.

 di Federica D’Amato

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“Berlusconi o il ’68 realizzato”, Mario Perniola, Mimesis 2011 – di Federica D’Amato


A seguire una lettura del bel libretto “Berlusconi o il ’68 realizzato”, del filosofo Mario Perniola, edito da Mimesis nel 2011 – a cura di Federica D’Amato

Questa lettura nasce da un libro e da una débat. Il libro è Berlusconi o il ’68 realizzato (Mimesis Edizioni, 2011), dal filosofo Mario Perniola, e dal dibattito che questo libercolo ha animato sulle pagine on-line della rivista Alfabeta, tra Francesco Berardi “Bifo” e lo stesso “pseudo-Perniola”, come lo appella ironicamente il primo. E’ facile intuire dal titolo che Perniola propone nel suo pamphlet una tesi ardita: Silvio Berlusconi ha realizzato gli ideali della cultura libertaria esplosa con il maggio francese, la sua politica ed il suo barbarico neoliberismo non sono altro che l’esito spontaneo, l’acme tutto italiano, della rottura che nel ’68 vide frangersi uno spartiacque mai più risanato tra l’esperienza reale di famiglia, studio, lavoro, cultura e la loro deregolamentazione. E qui s’adira Franco Berardi, scrivendo a riguardo: “Lo pseudo-Perniola dimentica che il ’68 voleva anzitutto la fine del capitalismo, (la fine del predominio del profitto sull’interesse sociale) e come sappiamo Berlusconi è andato in una direzione ben diversa. E non solo lui. Nella cultura del ‘68 […] i movimenti furono il luogo dell’ironia: dissociazione del discorso dall’esistente, moltiplicazione dei piani di possibilità, perenne fuga dal dogma. Quando essi mancarono il loro scopo – che era la liberazione dal capitalismo, dal suo dogmatismo e dalla sua violenza, il potere spettacolare si appropriò della loro polisemia e la trasformò in cinismo”. Tralasciando la replica di Perniola, che invito alla lettura sul sito internet di Alfabeta, ciò che mi preme sottolineare, dal particolare angolo d’incidenza della mia giovinezza letteralmente disastrata da quelle “ironia” (?) e “dissociazione”, è come si possa oggi mancare da una dialettica sana in grado di storicizzare qualsiasi evento, positivo o negativo, alla luce della decomposizione del presente. Per dirla poeticamente alla Rilke, il consiglio è quello di uscire ed entrare dalla metamorfosi, ma per certificare la validità di una tesi la poesia non basta, dunque opportuno sarà esporre per sommi capi le argomentazioni principali del libro.

 Cosa compie Berlusconi di quel Maggio? Perniola raggruppa gli obiettivi della rivolta francese intorno agli attuali esiti berlusconiani, che nel testo coincidono con una manciata di capitoli densissimi: 1. la politica può essere fatta da tutti, 2. non lavorate mai, 3. la fine della famiglia, 4. la fine della scuola, 5. la fine dell’università e della borghesia, 6. l’espropriazione della salute, cui seguono tre capitoli che strutturano un paragone stringente tra la situazione del “culturame” italiano, o meglio occidentale, e quella della Rivoluzione Culturale Maoista, dove gli intellettuali cinesi in una ciclica alternanza di persecuzioni e glorificazioni da parte del potere, “da nona categoria puzzolente” divengono “spina dorsale della nazione”, nell’ottica di un giusto recupero della tradizione, ovvero del Confucianesimo. L’ultimo capitoletto, “10. Possiamo essere indignati?”, focalizzando l’etimologia della parola “dignità”, chiama in causa tutti noi, se “Ora la domanda cruciale è: possiamo permetterci di essere indignati, se non abbiamo nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia?)? Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità?”. Un bel pugno allo stomaco che non risparmia nessuno. Continua Perniola, “ Se Berlusconi è da quasi vent’anni il protagonista della politica italiana non è solo per gli spettacoli che offre: se fosse così, bisognerebbe concludere che il popolo italiano è un popolo di cretini! […]. Dietro il commediante, il piazzista, il venditore di fumo, c’è qualcosa di anonimo, di neutro, direi quasi filosofico, che costituisce l’essenza del capitalismo finanziario, il quale non è fondato sul lavoro, ma sul gioco”. Dalla dialettica spezzata tra lavoro/gioco, e superando la trattazione su fine della famiglia, studio e lavoro, è opportuno soffermarsi sulla “fine dell’università e della borghesia”. Lungi dal ritenere Berlusconi il solo responsabile del “collasso dell’università italiana”, semmai colui che ne “ha raccolto i frutti”, ivi Perniola collega la deriva della classe borghese proprio a quella dell’università, fornendo una ragione lapidaria: “l’esistenza della borghesia non serve più al capitalismo, il quale oggi trova nella classe media un ostacolo all’espansione straripante del modello neo-liberistico”. Se la classe dirigente, la “classe media”, è divenuta scomoda perché costosa, l’Università di necessità non avrà più come obiettivo primario quello di formarne una – “indipendentemente dalle famiglie da cui provengono”. Dunque viene meno la ragion d’essere sia del sapere scientifico, sia dell’ordine professionale. Crudo rammentare al lettore il vizietto del baronaggio dell’università italiana, ossia quell’ “accanimento nell’impedire ogni mobilità sociale, riducendo i giovani in una condizione non molto dissimile da quella dei servi della gleba medioevali, che per nascita erano legati alla terra coltivata dai loro genitori. […] Azzerando ogni possibilità di ascesa socio-economica, (anche attraverso la svalorizzazione dei titoli di studio e la demotivazione dei docenti), il familismo amorale non trova più ostacoli nell’assegnare uffici … ai più incompetenti, ignoranti e corrotti. Anche qui Berlusconi … ha trovato la pappa pronta”. Dalla “borghesia che scopre che il capitalismo non ha più bisogno di lei” ci spostiamo alla vexata quaestio, “rispetto o disprezzo verso la cultura?”. Nell’introdurre il paragone tra la situazione occidentale e quella cinese, definita “per eccellenza” luogo della problematica culturale, per il vecchio continente Perniola parla addirittura di “odio: “Si parva licet, la questione degli intellettuali si trascina in Cina da due millenni e mezzo, come un problema di enorme rilevanza politica, mentre in Italia (con buona pace di Gramsci) è in fondo un argomento nuovo: anzi non è nemmeno un argomento, ma è l’aria di un’operetta […]. In realtà Berlusconi ha liberato l’ignoranza degli italiani da ogni cattiva coscienza, da ogni colpa, da ogni vergogna, portando a termine un processo iniziato nel Sessantotto sotto un’altra bandiera. Per dirla nel modo più chiaro possibile […] ‘Le persone istruite ci sono sempre state sul cazzo, ma prima non potevamo dirlo senza fare una brutta figura; viva Berlusconi che ci ha emancipato da questo complesso”. Una sassaiola sottoforma di parole che diventa sintesi epocale della devastazione dei tempi attuali: momento non solo di altissima riflessione, ma anche di bella letteratura, pagina che rende autentico il valore questo piccolo libro. Buona lettura.

di Federica D’Amato

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La Noubs, con Federica D’Amato, segnalati al Premio Marazza


Piccole grandi soddisfazioni: la Giuria del Premio Marazza 2012 ha segnalato, all’interno della sezione “Traduzione di poesia opera prima”, il Libro dell’Amico e dell’Amato di Raimondo Lullo, dai noi pubblicato nel Novembre 2011, per le cure di Federica D’Amato, accanto ad eccellenze editoriali e di traduzione che non possono far altro che renderci orgogliosi del nostro lavoro. Riportiamo un breve estratto del verbale:

“[…]

Per la sezione

TRADUZIONE DI POESIA OPERA PRIMA

l’attenzione dei giurati si è principalmente incentrata sulle seguenti opere:

Auden – Oratorio di Natale – Transeuropa 2011, traduzione di Vanni Bianconi

Karasek – Fuochi di bengala – Il ponte del sale 2011, traduzione di Leonardo Masi

Llull – Il libro dell’amico e dell’amato – Noubs 2011, traduzione di Federica D’Amato

Mikhail – La guerra lavora duro – San Marco dei Giustiniani 2011, traduzione di Elena Chiti

Rossetti – Donne d’amore – Barbès 2011, traduzione Luca Baldoni

[…]

La Giuria desidera inoltre segnalare l’eccellenza del lavoro compiuto da Masi, D’Amato e Chiti.”

QUI il link del Premio Marazza.

Ringraziamo il Premio medesimo , ovviamente Federica D’Amato, nostra autrice e collaboratrice, e tutti i nostri lettori.

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“VASCO, IL MALE”, di Talanca-Alfieri, lettura di Federica D’Amato


La Noubs oggi ospita la lettura tagliente del libro “Vasco, Il Male”, Mimesis Edizioni 2012, di Talanca-Alfieri, a cura di Federica D’Amato. Una riduzione dello scritto è già uscita sul quotidiano Il Centro, L’Espresso, lo scorso Venerdì 1 Giugno.

Buona lettura!

 

 

Vasco, il male? Il trionfo della logica del silfo

di Federica D’Amato

Il timore era quello di sprecare energie dietro l’ennesimo libro fantoccio, messo su da due autori in cerca di fama. Mai cautela fu più inopportuna. “Vasco, il Male”, anatema lanciato contro il cantante Vasco Rossi, scritto a quattro mani dal critico musicale Paolo Talanca e dal pensatore Vittorio Alfieri, è un libro che finalmente ha dato risposta chiara, sensata al disagio che da sempre provo al solo immaginare la sgraziata figura del silfo modenese. E, ai fini del “trionfo della logica dell’identico”, non è un caso che io abbia utilizzato l’appellativo “silfo”: nella mitologia nordica, il silfo era uno spiritello d’aria in grado, attraverso i suoi sortilegi, di causare paralisi, proprio come accade quando si ascoltano le canzoni del performer nostrano: immobilismo, torpore spirituale, accidia; induttore di “paranoia”, oserei dire, ovvero generatore di paranoici, e in questo mi soccorre l’impietosa definizione elaborata dallo psicanalista Luigi Zoja “Il paranoico spesso è convincente, addirittura carismatico. In lui il delirio non è direttamente riconoscibile. Incapace di sguardo interiore, parte dalla certezza granitica che ogni male vada attribuito agli altri. La sua logica nascosta procede invertendo le cause, senza smarrire però l’apparenza della ragione. Questa follia “lucida” è uno stile di pensiero privo di dimensione morale, ma con una preoccupante contagiosità sociale. Raggiunge infatti un’intensità esplosiva quando fuoriesce dalla patologia individuale e infetta la massa”. Ma andiamo per ordine. Il libro di Talanca-Alfieri, non solo ha soddisfatto una esigenza di natura, come dire, biografica, ma ha in special modo innegabili punti di forza. Il primo è che è scritto bene: nonostante il tema induca nel rischio di far scadere il registro nella palude della divulgazione spicciola, i nostri autori restano fedeli al dettato della migliore tradizione europea di critica formalista, discendente diretta di quella che fu la numinosa esperienza della Scuola di Francoforte. Il secondo è che c’è una franca sostanza dietro il buon dire: tutto ciò che viene affermato è verificabile, riscontrabile in un’ipotesi di esperienza dell’approccio filologico al vero – ovvero, in questo libro la comunicazione, “il traumatico miracolo” direbbe Perniola, manca di strutturare il testo. Era ora.

Il terzo motivo è che questa invettiva contro “la mediocrità come ambizione” del signor Rossi, è prova di eleganza del pensiero contro la quale è difficile scagliarsi “in difesa di”, semplicemente perché non sussistono giustificazioni sufficienti a dimostrare il contrario: Vasco Rossi, sì come il gregge che ha strumentalizzato e che lo ha strumentalizzato, è il “male”. Quale male? Un male tutto italiano, anni ’80, un male di cui lo stesso Alfieri ci parla «Indubbiamente il titolo ha una buona dose di provocazione, ma non vorrei che il suo significato ne risultasse in qualche modo ridimensionato. Ogni cultura di ogni tempo ha sempre fatto riferimento a idee di bene e male in base alle quali orientare il vivere nel mondo di ciascun individuo, e nella nostra società dello spettacolo spesso le due dimensioni si sono invertite di ruolo. Mi sono concentrato sulle specificità dialettiche che il fenomeno-Vasco incarna in sé: l’immagine del dannato e dell’outsider ha giovato al cantante emiliano, a tal punto però da contraddirsi nel suo stesso concetto, diventando il personaggio più celebre e trionfante della nostra cultura nazionale. Ho introdotto il termine così deciso di male a partire dalla constatazione del nostro presente, un orizzonte dove la catastrofe sembra compiersi quotidianamente senza possibilità di scampo, e la mia tesi è che alcune figure abbiano contribuito più di altre». Dunque nulla che abbia a che fare col fanatismo dell’esser contro a tutti i costi, ma: «La scrittura di “Vasco, il Male” è nata dall’esigenza di voler indagare con serietà un fenomeno, un personaggio, un percorso artistico che tanto hanno influito nella società italiana e nel presente che ci troviamo a vivere. Vasco Rossi è, senza fronzoli, la più grande rockstar italiana di tutti i tempi; bene: provare a spiegarne i motivi è il minimo che uno studioso serio e coscienzioso possa fare», dichiara Paolo Talanca, proseguendo «nella prima parte del libro guardo da vicino il percorso artistico di Vasco, individuando una parabola sublime fino alla metà degli anni Novanta e poi un lento e inesorabile declino. Negli ultimi quindici anni non ha fatto che cantare la stessa canzone, ripetere l’identico. Io chiamo questi ultimi quindici anni il periodo della “canzone a una dimensione».

Quando comprendo ulteriormente l’utilità dell’operazione, chiedo a Talanca circa la funzione catartica del libro, ed egli risponde citando la famosa diatriba che molti anni fa vide coinvolti il critico Salvalaggio contra l’immoralità sbadata degli esordi del Blasco, con un ribaltamento della prospettiva che è da considerarsi anche risposta conclusiva nelle polemiche innescate dal volume oggetto di questa recensione: «Quale funzione? Vasco ha risposto al libro sul suo Facebook in maniera decisamente piccata e reazionaria. Sostanzialmente considera il libro una provocazione per farsi pubblicità e se l’è presa davvero a cuore. Bene: chi ha letto il libro sa che tutto è perfettamente motivato al suo interno. Ma non è questo il punto. Io credo che la cosa interessante sia il fatto che oggi Vasco vesta i panni di Salvalaggio e reagisca contro quella che secondo lui è una provocazione a un ordine costituito. Vasco è Salvalaggio: il meccanismo paradossalmente si è invertito. È significativo, in più, che oggi al posto della provocazione da sballati di Vasco si sostituiscano processi filologici, filosofici e critici. Insomma: se a cavallo tra gli anni Settanta/Ottanta la rivoluzione si faceva con uno spinello, oggi si fa col senso critico. A ben vedere, in quest’ottica il nostro periodo di crisi si rivela ben più interessante di quanto si possa pensare». Buona lettura.


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Trying to Pray, James Wright – Una lettura, di Federica D’Amato


Un focus sul poeta americano Charles Wright (1935 ), di Federica D’Amato, che si sta occupando della traduzione di alcune sue poesie.

Il brano è tratto dal n°38 di Nuovi Argomenti, “Demoni”, Aprile-Giugno 2007; la traduzione è di Damiano Abeni.

 

 

“I touch leaves”, leggendo Wright

di Federica D’Amato

 

Provando a pregare, di James Wright

Stavolta mi sono lasciato il corpo alle spalle, e piange

tra le sue spine scure.

Eppure,

c’è del buono a questo mondo.

Si fa sera.

E’ il buio buono

delle mani di donne che toccano forme di pane.

L’anima di un albero comincia a muoversi.

Sioro foglie.

Chiudo gli occhi, penso all’acqua.

 

 

Definirei questa poesia di Charles Wright magistrale nella sua bellezza.

Vi è un continuo moto ascensionale e discensionale dalla carne all’essere – e viceversa; tale movimento, che è sublimante la parola, informa l’ontogenesi delle immagini. Ecco, proprio le immagini, virtù della poesia, riposo della parola dopo tanto sforzo per trovarsi silenziosa, “sul modello del silenzio”, diceva Celan: Wright fa vaporare le immagini, esse risultano perfettamente aderenti all’intentio del dettato: pregare, dunque, parlare per effigi, opali, segni residuali.

“Stavolta mi sono lasciato il corpo alle spalle”: corpo e preghiera così si separano, subentra l’attenzione al vuoto, la preghiera dell’anima che avverte, nonostante il peso occidentale (quello “still”, quell’ “eppure”), il buono di questo mondo. Nella direzione della rarefazione che troviamo in questa, come in altre poesie della raccolta The branch will not break (Il ramo non si spezzerà, 1963), azzardiamo uno sguardo su Wright come illuminato epigone di George Trakl. A riguardo, l’oggetto metafisico per eccellenza di Trakl, il buio, ritorna nella nostra poesia proprio nel punto in cui essa scavalca il fenomeno, il corpo dimentica quel piangere e nel “buio buono” ritorna l’esperienza, l’erotismo nei confronti di ciò che è sostanza, “mani di donne che toccano forme di pane”.

Dopo tutto si rivela: le immagini ci sono, abitano il luogo della poesia: “sfioro foglie”.

Dopo il buio si fa totale perché “chiudo gli occhi, penso all’acqua”, subentro nella condizione del vedere.

Penso all’acqua, all’essere. Penso a niente.

 

 

 

Trying to Pray, James Wright

This time, I have left my body behind me, crying

In its dark.

Still,

There are good thing in this world.

It is dusk.

It is the good darkness

Of women’s hands that touch loaves.

The spirit of a tree begins to move.

I touch leaves.

I close my eyes, and think of water.

 

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WALTER SITI MAGISTER, di Federica D’Amato


Brevi note di lettura di Federica D’Amato, sul grande scrittore Walter Siti, in questi giorni in libreria con il suo nuovo romanzo, Resistere non serve a niente, Rizzoli 2012.

Walter Siti magister

di Federica D’Amato

Nell’andare in libreria c’è da soffrire.

In quell’improbabile pellegrinaggio larvale delle nostre anime su facebook, twitter et alii, c’è anche da star peggio: chi ti molesta in libreria con romanzi privi d’ogni decenza escatologica, in rete pompa decadenza. Per non parlare di coloro che essendo ubiqui sui blog letterari, si considerano scrittori, e vai a vedere al massimo hanno partecipato a qualche antologia. O gli esordienti delle grandi case editrici che si improvvisano critici letterari sui quotidiani del casato? Con un bagaglio culturale che può vantare tutta la letteratura dagli anni ’90 sino ad oggi, imbastiscono faide contro il sistema che li nutre, consumandoli.

Dunque, il Male. O l’indifferenza assoluta?

La seconda. Lo fa intuire Walter Siti, non con Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012) – la cui lettura sospiro da giorni, timorosa ma spietata ché lì dentro vi sia un risposta fatale. No. Lo fa con uno scritto occasionale che prepara, soffre le lascive brutalità del contemporaneo: nelle risposte al Questionario Moraviano, proposto da Nuovi Argomenti, n°40, serie quinta del Settembre/Ottobre 2007, omaggio a Moravia ad un secolo dalla nascita.

Alla domanda se abbia senso oggi parlare di impegno di uno scrittore, Siti secca gli entusiasmi, affermando “non riesco a pensare alla letteratura se non come a una forma di impegno”. E’ impegnato lo scrittore, anche il più valoroso, che oggidì informa il regime di realtà della letteratura? No, col danno irreparabile che “il più valoroso” non scrive più, ha abdicato silenzioso per non perire, ha compreso che “resistere non serve a niente”. Perché? Ancora Siti “la letteratura ben pettinata, quella che porta scritto in fronte ‘letteratura’, quella che intrattiene e ci fa sentire fighi, è semplicemente prostituzione e non vale la pena di parlarne”. Mi sembra una ottima descrizione del fenomenico riportato ad incipit della presente lettura.

Proseguendo, nella vexata quaestio degli equilibri tra diritti privati e pubblici, Siti fulmineo: “intorno alla letteratura in quanto letteratura non si crea mai consenso. Chi esalta il libro di Saviano fino a farne un manifesto del PD, in realtà non parla del libro di Saviano ma della moda contenutistica che si è creata intorno ad esso”. In quest’aria pestifera e plastificata, dove respira quell’ “in quanto”? Se per ontogenesi è carsico il suo movimento, com’è possibile la scandalosa focalizzazione sul presente che attua? Soprattutto: in un’orgia di consenso plenario, nella prospettiva orizzontale e digitale dell’esperienza, può essere considerata democratizzante la funzione del “vero” scrittore? (considerate le premesse di inattualità).

E veniamo al rigor mortis dell’indifferente. Siti: “Mi pare interessante l’indifferenza culturale. In questo campo gli indifferenti sono, direi: 1) quelli che si credono intangibili (e intatti) dalla deprivazione di umanità che la tecnologia ha imposto a tutto il mondo occidentale; […] 3) quelli che si cullano nel beato possesso di un’eredità culturale ormai inefficace e minoritaria, ma che loro credono maggioritaria e vincente; […] 5) quelli che usano la satira per congratularsi con se stessi; 6) quelli che negano l’emergenza, o fingono di vederla ma hanno fiducia che il male si possa sconfiggere con gli strumenti della politica internazionale e dell’ingegneria giuslavoristica (applicata da altri) […]”. L’indifferenza, che è una scelta e non una stanchezza successiva al trauma1, fa più male del male, perché rende davvero inanimate pietra di paragone e pietra angolare. Rende privo di senso l’acume degli articulator, i “riformulatori” (pietra di paragone), ovvero di coloro che “hanno la funzione di mettere a fuoco ciò che più è significativo e, nel contempo, lo fanno rivivere sotto una veste nuova; rivelano un retroterra culturale che stabilisce quello che conta e che dà un senso a ciò che si fa”2, ed uccide con forza pesticida il nume dei “riconfiguratori” (la pietra angolare), coloro che “trasformano una cultura in modo così radicale che, per risultare comprensibili, non possono più basarsi su un linguaggio esistente e su pratiche condivise. Di conseguenza, spesso non vengono capiti dalla gente della loro stessa cultura […]”3.

Aggiungerei, alla lista di Siti, che indifferenti sono anche coloro che ignorano completamente una tradizione, nel nostro caso letteraria, e sulle sabbie mobili della letteratura “figa” stanno edificando un successo di vendite, ma anche un’opera di avvelenamento del lettore, di qualsiasi lettore. Vorrei chiedergli com’è possibile restare immobili, non resistere, restare a guardare tutte questi silfi che si fanno chiamare scrittori, in tale menzogna perpetrando un vero e proprio crimine contro “L’esperienza”. Questa corpo gelido…

Non vi è più alcuna differenza tra l’egocrazia politica e quella culturale: “[…] Se viene avanti un nuovo medioevo, io sono pronto”4.

Federica D’Amato

1ved. sul concetto di trauma, Mario Perniola e luigi Zoja.

2cit. p. 98, in Ogni cosa risplende, di H. Dreyfus e S. Dorrance Kelly, Einaudi, 2012

3Ibid., p. 98

4Resistere non serve a niente, Walter Siti, Rizzoli, 2012

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Il “Non-detto” di Mariangela Gualtieri


Il “Non-detto” di Mariangela Gualtieri, breve lettura di Federica D’Amato

“Se è il carattere tautologico del linguaggio a dannarci, allora la voce ci salva. La voce è zitta, prima, dopo emerge dalle acque del silenzio e vi cammina, sospesa, sul linguaggio incede senza lasciare traccia. Ci cura la voce, illude una presenza di carne, e invece è solo sbaglio della materia, svista del divino che a noi la donò per consolarci della notte con bestie affamate. Eppure la voce è fatto di nominazione, questo accorto miracolo di cellule e arie e calore che ha detto la storia dell’uomo, l’ha guidata passando. Voce che è nata per dire un solo nome, l’uno impronunciabile “mai chiamato”, linguaggio che nasci per amore e bestemmia, silenzio che rispondi all’evento.

fd”

 

Nome che stai al centro,

il tuo suono ciocca e s’imperla di voci

ma nessuna ti tiene, nessuna ti osa in

suono, in lettera e cifra. Nelle tue solitudini

di mai chiamato. Come tutto è assai strano.

A me sembra. Assai strano.

Ti piantòno, ti indago, mi avvicino in

millimetri. Ti ho nella voce

senza che esca in suono.

Mariangela Gualtieri, tratto da Nei Leoni e nei Lupi


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UNA LETTURA DI FLOW, ENRICO PALANDRI, DI FEDERICA D’AMATO


Una lettura dell’ultimo gioiello di Enrico Palandri, Flow, Lorenzo Barbera Editore, 2011.

Ne proponiamo la lettura di Federica D’Amato.

Buona lettura!

FLOW

di Enrico Palandri

Barbera Editore – Collana Centocinquanta

2011, 86 pp, 12€

Una lettura

di Federica D’Amato

Questo libro si nutre di una scommessa archimedea, quella sulla trascendenza del linguaggio, quella sull’alterità costitutiva e salvifica del “grande aliseo” – per dirla alla Kafka -, il fondamento oscuro che regge l’ontocinesi dei nostri cuori attraverso la creazione. E’ un meta-flusso che ragiona con una prosa piana e cantata sul flusso dell’essere umano scrivendo, e come ogni autentico momento letterario invita il lettore ad un cambio di rotta, a respirare più veri, a ritornare sulle storie ascoltate da infanti, ripartire da lì. Sembra che Palandri abbia scritto Flow contemporaneamente in due modi: il primo sedendosi improvvisamente allo scrittoio e, liberatosi da qualsiasi pattume retorico e formale, si sia come sgravato del parto che è stata la sua vita di docente, scrittore in un consuntivo, quasi pavesiano, che è atto d’amore nei confronti di se stesso e della letteratura di tutti i tempi; il secondo modo è invece quello di un Palandri che scrive il flusso dall’inizio dei tempi, con una lentezza medioevale, dal principio delle proprie date sino a te, lettore, che sei lì per farle tue e tramandarle infinitamente attraverso le profondità che da te riuscirai a far zampillare. C’è una doppia pista, d’altronde “ogni scrittore e ogni lettore è infatti sia appartenenza al proprio tempo, passione, desiderio, volontà di esserci, che non appartenenza, e cioè fuga, nostalgia, dissidio, silenzio”.

In quattordici capitoli, compresa la Bibliografia che considero vero e proprio momento argomentativo, il dettato tange le direttrici principali che animano la corrente: la lingua come contatto con l’essere “Assomigliando a questo gesto sfioriamo un’essenza ineffabile della nostra umanità, ci avviciniamo a qualcosa che non si può dire, lo respiriamo”; l’opera d’arte come crisi della storia, in barba al nostro Occidente di storicismo imbevuto, che nel momento in cui appare sfugge alle coordinate spazio-tempo, fonda il mondo di cui è espressione, limite legge; la negatività, il non-tempo come luogo eletto in cui le storie si raccontano, terreno di fioritura di una tradizione; il rapporto tra storie e storia, narrazione e verisimile: perché le storie raccontate sono più importanti della verità? Perché la presuppongono, sono loro a crearla “Per tutta la vita ci avviciniamo a narrazioni che ci attraggono, ci aiutano a crescere e presto ce le lasciamo alle spalle portandone le tracce in un tempo parallelo al presente sotterraneo, che costituisce il tessuto di nuove narrazioni attraverso cui interpretiamo il mondo”; la politica come bavaglio critico del flusso, cui proteggersi con la frequentazione dei morti “la loro musica, le loro poesie. La loro vita […] che ci raggiunge senza costringerci a difenderci dal modo in cui si intreccia alla nostra. E sono i morti a difenderci dai critici”; l’importanza di riconoscere la voluta oscurità del mythos, la sua benefica imprendibilità da parte del logos perché “non sono le spiegazioni che restano con noi, ma le domande, o piuttosto qualcosa che resiste oltre le domande, nella sua irriducibile alterità”; la funzione importantissima del tenere a battesimo le parole propria degli scrittori che, nella loro ricerca semantica ci salvano dall’ambiguità tipica del linguaggio, “l’arbitrarietà del loro gesto linguistico ci salva”; e ancora il valore dello stile, le relazioni tra l’affettività personale e l’opera d’arte, i rapporti fra tipo, personaggio, individuo, la scelta della libertà della creazione, che articola meglio il suo contrario, la storia, l’orizzonte del presente che è il nostro giogo. I contenitori di queste riflessioni spesso palesano un nome: Leopardi, Calvino, Wittgeinstein, Huxley, mentre il resto va ricercato nella confessione bibliografica finale.

Flow di Enrico Palandri è un marcatore d’umanità, un grande libro sull’importanza della condivisione, un’etica limpida della letteratura. Un invito, finalmente, a danzare.

 fd

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INTERVISTA A VINCENZO LATRONICO – LA COSPIRAZIONE DELLE COLOMBE (Bompiani 2011)


Questa volta le Edizioni Noubs, per le cure di Massimo Pamio, intervista VINCENZO LATRONICO, una delle giovani voci della narrativa italiana più promettenti, ma soprattutto, unitamente ad Alcide Pierantozzi, una delle menti più colte e raffinate.

Vincenzo Latronico è nato a Roma nel 1984. Ha pubblicato due romanzi con Bompiani (Ginnastica e rivoluzione, nel 2008, e La cospirazione delle colombe, nel 2011). Ha tradotto opere di Max Beerbohm, Hanif Kureishi e P.G. Wodehouse, e sta lavorando per minimum fax a una nuova traduzione di Tenera è la notte di F. S. Fitzgerald. Scrive di arte contemporanea per Domus, frieze e Rolling Stone.

Buona lettura!

CONTRO LA LETTERATURA DI CONTRABBANDO

Intervista a Vincenzo Latronico

a cura di Massimo Pamio

1) Vincenzo, intanto ti faccio i nostri complimenti perché, così giovane, hai già composto due romanzi di tutto rispetto, Ginnastica e rivoluzione e il recente La cospirazione delle colombe.  Ci vuoi accennare brevemente al primo romanzo? Quale è stata la tua palestra di scrittura: dove, come, quando hai compiuto le tue prime prove letterarie?

In realtà, non vorrei accennare al primo romanzo. È strano – ci ho messo tutto me stesso, quale ero allora, e il risultato gli assomiglia: agitato, ansioso, sovraccarico, impreciso, tutto sbalzi e strattoni e picchiate senza un bersaglio, o con un bersaglio che si rivela essere un ologramma, un fantasma, un fuoco di prisma. Se ci ripenso, cosa che mi sforzo il più possibile di non fare, mi intenerisce e mi imbarazza e mi fa venire voglia di pensare ad altro, come le lettere d’amore non spedite del liceo. Quando provo a rileggerlo trovo delle cose che mi piacciono, ma smetto subito. Parlava di cinque ventenni che vivevano a Parigi, volevano andare al G8 di Genova nel 2001 e alla fine non ci andavano, per colpa della polizia, di uno spacciatore messicano, di un anziano miliardario, e loro.

2) La cospirazione delle colombe, ambientato nel mondo dell’economia vissuto attraverso le esperienze di giovani bocconiani, è narrato in terza persona, senonché, sorprendentemente, a pagina 77, fa irruzione l’io narrante, un personaggio di secondo piano, ma, visto che viene chiamato in causa, si suppone che possa essere il vero motore occulto della storia, che segue gli avvenimenti senza farsi notare, ma che tutto inquadra dal buco della serratura. Una trovata hitchcockiana. Che sia un romanzo a tesi, e che ci sia qualcuno che voglia far passare una sua concezione del mondo, grazie alle leggi di una personale categoria morale…

In origine l’intenzione era un po’ il contrario: per me – da lettore – i romanzi che vogliono contrabbandare una tesi sono quelli che fingono oggettività (“in terza persona”, appunto). Inserire me stesso era proprio un tentativo di antidoto a questo contrabbando: dicendo dove sono io nella storia, come la vedo e perché, relativizzo o tento di relativizzare questa tesi – mettendola in bocca, fra l’altro, a un personaggio minore, marginale, che magari capisce poco di quello che succede. Ma forse è solo un alibi per una forma neanche troppo implicita di protagonismo.

3) In questo senso ti vedo come un nuovo Calvino, ovvero come quello scrittore che, partendo da un teorema per dimostrare qualcosa, alla fine giunge a una agnizione che però, potrebbe smentire le premesse date…

A farci ben caso, il libro contiene due teoremi, che sono diametralmente opposti l’uno all’altro. In questo senso – ovviamente non posso non sentirmi lusingato per il paragone – ma mi pare che quasi sempre Calvino sia troppo controllato, troppo limpido, troppo passeggiatore fischiettante nel fuoco incrociato della trincea. Il suo libro che amo di più – e che giudico davvero un capolavoro – è Il barone rampante, proprio perché secondo me lì il controllo gli sfugge, e il libro ha una tesi chiarissima che però è molto difficile da mettere a fuoco e si trasforma costantemente nel proprio opposto (c’è chiaramente una lotta fra “la ragione” e qualcosa d’altro: ma chi rappresenta la ragione? Cosimo, o gli altri?). In questo senso è un libro malriuscito, un po’ infetto, un po’ slabbrato (è anche quello con la trama più artificiosa, giustapposta): e questo, a mio parere, è un bene.

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Presentazione de IL LIBRO DELL’AMICO E DELL’AMATO di Raimondo Lullo a Chieti


Lunedì 30 gennaio p.v. alle ore 17 e 30 presso l’Auditorium del Rettorato dell’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti, si terrà la presentazione de Il Libro dell’Amico dell’Amato di Raimondo Lullo, a cura di Federica D’Amato, Edizioni Noubs 2011. All’incontro, organizzato dalla casa editrice, parteciperanno il Professor Stefano Trinchese, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e Monsignor Bruno Forte Arcivescovo dell’Arcidiocesi di Chieti-Vasto, che porterà un saluto augurale. Relatori saranno Arnaldo Colasanti, scrittore e critico letterario, il Prof. Vito Moretti, ordinario di Letteratura Italiana, il Prof. Michele Giulio Masciarelli, direttore del PIANUM di Chieti e la Prof.ssa Ilaria Zamuner. Saranno inoltre eseguite musiche e coreografie dirette dalla Prof.ssa Maria Gabriella Ciaffarini (al piano, autrice delle musiche ispirate al tresto lulliano), con Aurelio Di Virgilio e Manuel Dominioni (voci recitanti), Sara Di Giampietro (soprano) con coreografie di Sara Sidonio (danzatrice).

Moderatore dell’evento sarà il Cav. Massimo Pamio, direttore della casa editrice Noubs di Chieti.

Testo fondamentale della letteratura catalana, il Llibre d’amic i amat è un raro gioiello di poesia filosofica il cui Autore, il beato Raimondo Lullo, realizzò nel 1283; nel 1995 è stata realizzata una edizione critica aggiornata di Albert Soler, di cui si offre per la prima volta in Italia la traduzione a cura della giovane studiosa Federica D’Amato. La pubblicazione di questo libro intende riportare

all’attenzione di un pubblico non necessariamente specializzato un’opera di profonda bellezza poetica, godibile da tutti quei lettori attenti al valore di un testo letterario. Il volume ha ottenuto uno dei massimi riconoscimenti d’ambito lulliano: il patrocinio economico e morale del Ramon Llull Institut, istituto ove è preservata, studiata e promossa la grandissima opera di Ramon Llull.

La pubblicazione focalizza l’interesse del lettore su di una figura eccezionale del nostro medioevo: Raimondo Lullo, maiorchino, siniscalco, poeta, missionario francescano, mistico, alchimista, scrittore, filosofo, teologo, avversato e perseguitato dall’Inquisizione, oggi riconosciuto Dottore Illuminato.

Federica D’Amato è una giovane studiosa abruzzese di letteratura, filosofia, scrive di critica letteraria e tenta la poesia. Dopo aver concluso gli studi umanistici ed aver viaggiato e studiato all’Estero è tornata in Italia, dove collabora con riviste letterarie e istituti di cultura; ha all’attivo diverse pubblicazioni e numerosi articoli di critica. Vive e lavora a Pescara.

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INTERVISTA INEDITA ALLA NON-FUNEREA BENEDETTA PALMIERI…


Federica D’Amato molesta BENEDETTA PALMIERI, giornalista e scrittrice, ormai seguitissima dal grande pubblico attraverso i suoi FUNERACCONTI, Feltrinelli 2011 (ospite lo scorso anno del Festival delle Letterature dell’Adriatico, Pescara).

C’è da dire che la signorina Palmieri è una persona così gentile e graziosa ché non solo ha resistito all’ormai famosa petulanza della D’Amato, ma ci ha praticamente onorati della sua presenza. Non è forse presenza, infatti, quella che scaturisce dalla partecipazione totale di una risposta ad una domanda? Per casa Noubs sì.

Speriamo che questa intervista vi faccia scoprire, se non la conoscete, una penna di valore, o che vi permetta di approfondire la lettura di un talento che ha da dare molto alla nostra letteratura.

Grazie Benedetta, di cuore.

“SCRIVERE PER RILEGGERSI E’ BELLEZZA”

intervista a Benedetta Palmieri

riproduzione riservata all’utilizzo esclusivo dell’autrice e della casa editrice

  1. Benedetta, i suoi Funeracconti (Feltrinelli, 2011) sono una collezione di intelligenza. Ritengo sia intelligente, infatti chi oggidì si confronti con il tabù certo non della morte, ma del suo più buio e complicato rovescio: la vita. Quale “rovescio” dell’enigmatica medaglia ha mosso la sua penna?

Innanzitutto voglio ringraziarla per la definizione lusinghiera: “collezione di intelligenza” non è poco. Per quanto riguarda la scelta del tema, però, non so se sia stata una questione di intelligenza; certamente lo è stata di istinto, o di inevitabilità. Credo che in me le due facce della medaglia siano una sola, che le mescola. Non sono mai riuscita a vivere senza che il pensiero del morire mi accompagnasse, e allo stesso modo non sono mai riuscita ad aver paura di morire senza interrogarmi sulla qualità della mia vita. Meglio: sulla sua identità; la qualità presuppone un giudizio che mi sembra troppo complesso dare, ma la sua identità è importante. È importante domandarci che storia desideriamo, che storia possiamo costruirci, e che posto vogliamo dare a ciò che ci mettiamo dentro.

Tra le altre cose, mi sono chiesta spesso se dovessi lanciarmi nella vita o prepararmi per lei – se anche un po’ di sane incoscienza e approssimazione fossero salutari, propedeutiche addirittura, al vivere; o se piuttosto dovessi aspettare di essere pronta – preparata, cresciuta, adatta – anche per il più piccolo dei passi (rischiando l’immobilismo). L’oscillare tra queste due posizioni e il tentativo di tenerne solo una non hanno potuto fare a meno di misurarsi costantemente con il parametro assoluto: la consapevolezza che a un certo momento (imprevedibile) della mia vita sarei morta. Questo coacervo di sentimenti emozioni e paure, di slanci impetuosi nel vivere e di frenate, si è trasformato nella voglia di domandarmi cosa pensassi anche attraverso la scrittura.

  1. Ho sempre associato la parola “partenopeo” alla filosofia, ovvero ai concetti di ironia e wit, direbbero i britannici. I suoi racconti, sì come le precedenti prove – penso a Un due Tre stella (Pironti 2009) – hanno confermato le mie associazioni, arricchendole di un valore aggiunto che credo sia caratteristico della sua scrittura: la levità. È in grado di circoscrivere una descrizione del suo dettato narrativo?

In verità no, non credo di esserne in grado. Però provo a individuarne uno auspicabile. E partirei dal fatto che ironia, wit, levità vorrei che a quel dettato appartenessero. Sono qualità che mi interessano. Forse, più di tutte tra le tre, la levità; che mi piacerebbe, però, chiaramente retta dalla sostanza. Insomma, non so se sia la formula più giusta, ma amo l’idea che i contenuti abbiano un peso senza che la loro forma sia necessariamente pesante – e per forma intendo sia lo stile sia l’animo con cui ci si dispone ad affrontarli.

Conoscendone, e vivendone quotidianamente, sfumature e contraddizioni (e avendola molto a cuore), faccio sempre fatica a inquadrare Napoli in caratteristiche fisse. Però è vero che ce ne sono di riconoscibili e ricorrenti; e tra queste una che mi piace molto (e che dunque vorrei mi appartenesse) è la capacità di sintesi. Una sintesi concettuale che per me trova la sua espressione perfetta nel dialetto napoletano. Anzi, mi sembrano così visceralmente legati, che a volte mi diverte immaginare che il dialetto non sia funzionale a rendere la sintesi, ma ne sia addirittura l’ispiratore.

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Su LA LETTURA di Federica D’Amato


Abbiamo fatto un spinosa domanda a Federica D’Amato e lei spinosamente ci ha risposto. Buona lettura!

“E purtroppo il nuovo inserto domenicale del Corriere della Sera, La Lettura, non mi convince fino in fondo. Leggerlo infastidisce un po’ il mio cuore, in esso insinua la bruciante certezza che l’Italia al solito sia quell’immensa prova di provincialismo dalla quale la nostra generazione di scrittori, critici, intellettuali non riuscirà mai a riscattarsi.

Innanzi tutto in questo club domenicale appaiono sempre gli stessi nomi. Per “stessi nomi” intendo coloro che seminano presenze (e spesso parole inutili) ovunque; la ricorrenza è così pressante che ad un certo punto inizi a sentire il rombo delle scuderie, fazioni, baronati editorial-letterari che fanno baccano dietro le quinte. Ciò, sinceramente, annoia, soprattutto perché i nomi in quistione non sono niente di speciale. Almeno per me, intendiamoci.

Mi rendo conto che il bisogno di lavorare sia molto, ma è probabile che non tutti, proprio tutti, debbano lavorare nell’industria culturale? Produrre significati inquinati, sintatticamente scorretti, logicamente confusi è pericoloso, eppure nessuno vuole capirlo (o no?).

La Lettura promuove la lettura e invece non fa altro che scoraggiarla: semplicemente è un inserto troppo lungo che cerca di parlare dell’intero fenomenico culturale italiano (e non solo), con risultati purtroppo a volte deludenti.

La Lettura forse vorrebbe modellarsi sull’exemplum del seriniano Satisfiction? Possibile? Purtoppo l’associazione mentale è inevitabile; scrivo “purtroppo” perché è triste sapere che in Italia oggidì vi sia un solo collettore di intelligenze critiche e letterarie, Satisfiction appunto, con quello stile anti-accademico ma serissimo, profondissimo al quale spontaneamente tendo a legarmi.

Essendo per convinta scelta fuori dai molti “giri” che animano attualmente l’egemonia sottoculturale (w Panarari) italiana, è possibile che io abbia scritto nella presente nota numerose corbellerie e forse offeso qualcuno: chiedo scusa in anticipo. Ma questa è la mia risposta alla vostra domanda.

Il mio problema è sempre stato quello di preferire lo studio e la lettura a qualsiasi mistificatorio invito a compierli questi atti rivoluzionari – se genuinamente condotti.

Sono tipo da Domenica Sole24ore, non me ne vogliate.”

fd

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TWINS! LE GEMELLE ALESSIA E MICHELA ORLANDO


Vi consigliamo un e-book “di talento”, segnalato a casa Noubs da Alessia & Michela Orlando, autrici di TWINS, un libro rivoluzionariO (e anti-aristotelico?).

Buona “lettura”!

L’E-BOOK

IL VIDEO

 

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