Giovanni Di Iacovo – Simone Gambacorta
“Nella carne dei miei sogni
Colloqui tra uno scrittore ed un cronista letterario”
Duende Edizioni, Teramo, 2012
Nota critica a cura di Federica D’Amato
Palazzo Corradini a Ravenna, casa d’infanzia dello scrittore
La cosiddetta forma breve nelle varie declinazioni dell’arte è una prova difficile, una formula magica: spesso modulata per fortunata vocazione, a volte raggiunta con la lima degli anni, essa rivela l’umano nella compressione della noce, scatena ere di senso per contrasto. Averla, praticarla, tentarla è quell’esercizio spirituale – del respiro, che imprime vigore al proprio artigianato, nel distillato di chissà quali diluvi verbali, tradisce nel tramite il sospetto di una iniziazione. A cosa? Alla vita. Da qui, dall’essenziale, muove il piccolo libro di Paolo Lagazzi e Daniela Tomerini, Otto piccoli inchini (Albatros 2011), una collezione di otto forme brevi perfette, assolutamente libere e giocose nei risvolti tematici, semplici gesti di magnanimità che attraverso il breviloquio spogliano il mondo, la vita, dal suo inutile dolore. Tutti conosciamo Lagazzi come uno dei maggiori critici letterari italiani, rigoroso e infaticabile intellettuale che ci ha donato attraverso i Meridiani ritratti indimenticabili dei poeti Attilio Bertolucci e Maria Luisa Spaziani, del critico Pietro Citati; qui, nello spazio di appena cinquantacinque pagine, offre “a pochi, pochissimi amici” un omaggio personale “alla forza sovrana e misteriosa delle parole”, ma soprattutto “allo spirito zen, un viaggio che non mi ha mai portato lontano dal mio destino, quello di essere sempre e solo un essere piccolo (paulus), un dilettante e un principiante in tutto, ma che mi ha insegnato a credere nell’incredibile”. In questo viaggio, costellato di interessi eterogenei, rilevante è la stella fissa della meditazione Zen, iniziata nel lontano 1978 e mai abbandonata, prima sotto la guida del grande Taisen Deshimaru Roshie, in seguito dell’allievo, Fausto Taiten Guareschi, cui è dedicata la seconda parte del volumetto: questo cammino, questa “iniziazione”, è estremamente palpabile tanto alla presenza corporea di Paolo Lagazzi, quanto alla sua assenza sulla pagina, una marca di “quieta inquietudine” inscindibile tra la franca sostanza del suo sguardo e i suoi libri, la ricerca letteraria, umana.
Lo scenario dell’intera argomentazione è la Natura, l’essere umano che ragiona sui minimalia ponendosi nei panni dell’altrove, vero ed unico luogo dell’a-fenomenico zen; la prima parte del libro, sul quale si concentra la presente lettura, si chiama infatti Voci tra il fuoco e il gelo e raccoglie in forma scritta gli interventi che Lagazzi fece, nell’Agosto 2010, a Fahrenheit: il compito era quello di “illustrare cinque parole a mia discrezione del vocabolario italiano: rileggerle, esplorarle, sondarne i significati”. E’ in questa sede che si apre la bellezza piana, composita del dettato, alternata dalla levità dei disegni di Daniela Tomerini, consorte di Lagazzi, virtuosa delle arti pittoriche, che completano l’imago della significazione nell’epifania impaginata dello sguardo. Rispetto, Poesia, Follia, Magia, Leggerezza sono le parole, di volta in volta trattate con l’urgenza del chiarificatore, dell’ordinatore di senso, di colui che scorge dietro la sacra scienza dell’etimologia, la chiave d’accesso al recupero di quella che fu l’alta lezione montaliana della decenza quotidiana. Certo Lagazzi ha parlato a se stesso, oltre che all’uditorio del noto programma radiofonico, ha riportato in quota il proprio assetto di volo, le sostanze che hanno informato la regione mitica dell’infanzia attraverso Magia & Leggerezza, poi i bacini sconfinati di tali implicazioni nell’età adulta, nella prova, nel patto con le origini attraverso Poesia, Rispetto & Follia. Sarebbe superfluo riportare esatta la grazia di queste pagine, se è giusto che solo nella lettura in prima persona s’invera il miracolo della vera presenza; vorrei solo soffermarmi sulle implicazioni della parola “Magia”. Scrive Lagazzi “Se è vero che la magia, come il sacro, è un elemento permanente della coscienza umana e non solo uno stadio superato della sua storia, è verso forme di magia bianca, di magia innocente, libera dall’armatura fantastica della Volontà di Potenza, che tendono le fantasie di molti fra noi […] Da ragazzo anch’io, per qualche anno, mi sono esibito come prestigiatore in coppia con mio fratello gemello Corrado. Questa esperienza è stata cruciale per me: ancora oggi penso al mondo scintillante dei prestigiatori come a una riserva importante di sogni, come a un teatro della leggerezza nel quale ci è possibile riposare la nostra anima sottraendola per un po’ alla logica del potere e del possesso, abbandonandoci allo spirito della gratuità come a un tappeto volante tessuto dalle fate”. Orbene, magia come afasia, abbandono, briglie sciolte dalla potenza della nominazione, collegamento fulmineo con l’archetipo del nostro Genius: leggerezza (non a caso “leggerezza” è la parola successiva, l’ultima della serie). A riguardo vi è un breve scritto di Giorgio Agamben, contenuto in Profanazioni (Nottetempo, 2005), che tratta proprio di “Magia e felicità”: “Benjamin ha detto una volta che la prima esperienza che il bambino ha del mondo non è che gli adulti sono più forti, ma la sua incapacità di magia” […] Ciò che possiamo raggiungere attraverso i nostri meriti e la nostra fatica non può, infatti, renderci veramente felici […] Per essere felici bisogna mettere dalla propria parte il genio nella bottiglia, tenersi in casa l’asino cacabaiocchi o la gallina dalle uova d’oro”. Lagazzi non accenna a tutto ciò? Non c’è da cogliere che un luminoso parallelo del sentire? Non vi è che da acquisire un fondamentale insegnamento? Quell’abbandonarsi allo spirito della gratuità è il Parsifal che sfinito entra nel non-luogo del Santo Graal, è “la creatura restituita all’inepresso”, ci dice Agamben: “La magia non è conoscenza dei nomi, ma gesto, smagamento dal nome […] Avere un nome è la colpa. La giustizia è senza nome, come la magia. Priva di nome, beata, la creatura bussa alla porta del paese dei maghi, che parlano solo coi gesti”.
Otto piccoli inchini, otto piccoli modi di respirare tra il prima e il dopo del reale.
Buona lettura.
di Federica D’Amato
Questa lettura nasce da un libro e da una débat. Il libro è Berlusconi o il ’68 realizzato (Mimesis Edizioni, 2011), dal filosofo Mario Perniola, e dal dibattito che questo libercolo ha animato sulle pagine on-line della rivista Alfabeta, tra Francesco Berardi “Bifo” e lo stesso “pseudo-Perniola”, come lo appella ironicamente il primo. E’ facile intuire dal titolo che Perniola propone nel suo pamphlet una tesi ardita: Silvio Berlusconi ha realizzato gli ideali della cultura libertaria esplosa con il maggio francese, la sua politica ed il suo barbarico neoliberismo non sono altro che l’esito spontaneo, l’acme tutto italiano, della rottura che nel ’68 vide frangersi uno spartiacque mai più risanato tra l’esperienza reale di famiglia, studio, lavoro, cultura e la loro deregolamentazione. E qui s’adira Franco Berardi, scrivendo a riguardo: “Lo pseudo-Perniola dimentica che il ’68 voleva anzitutto la fine del capitalismo, (la fine del predominio del profitto sull’interesse sociale) e come sappiamo Berlusconi è andato in una direzione ben diversa. E non solo lui. Nella cultura del ‘68 […] i movimenti furono il luogo dell’ironia: dissociazione del discorso dall’esistente, moltiplicazione dei piani di possibilità, perenne fuga dal dogma. Quando essi mancarono il loro scopo – che era la liberazione dal capitalismo, dal suo dogmatismo e dalla sua violenza, il potere spettacolare si appropriò della loro polisemia e la trasformò in cinismo”. Tralasciando la replica di Perniola, che invito alla lettura sul sito internet di Alfabeta, ciò che mi preme sottolineare, dal particolare angolo d’incidenza della mia giovinezza letteralmente disastrata da quelle “ironia” (?) e “dissociazione”, è come si possa oggi mancare da una dialettica sana in grado di storicizzare qualsiasi evento, positivo o negativo, alla luce della decomposizione del presente. Per dirla poeticamente alla Rilke, il consiglio è quello di uscire ed entrare dalla metamorfosi, ma per certificare la validità di una tesi la poesia non basta, dunque opportuno sarà esporre per sommi capi le argomentazioni principali del libro.
Cosa compie Berlusconi di quel Maggio? Perniola raggruppa gli obiettivi della rivolta francese intorno agli attuali esiti berlusconiani, che nel testo coincidono con una manciata di capitoli densissimi: 1. la politica può essere fatta da tutti, 2. non lavorate mai, 3. la fine della famiglia, 4. la fine della scuola, 5. la fine dell’università e della borghesia, 6. l’espropriazione della salute, cui seguono tre capitoli che strutturano un paragone stringente tra la situazione del “culturame” italiano, o meglio occidentale, e quella della Rivoluzione Culturale Maoista, dove gli intellettuali cinesi in una ciclica alternanza di persecuzioni e glorificazioni da parte del potere, “da nona categoria puzzolente” divengono “spina dorsale della nazione”, nell’ottica di un giusto recupero della tradizione, ovvero del Confucianesimo. L’ultimo capitoletto, “10. Possiamo essere indignati?”, focalizzando l’etimologia della parola “dignità”, chiama in causa tutti noi, se “Ora la domanda cruciale è: possiamo permetterci di essere indignati, se non abbiamo nessuna delle quattro virtù fondamentali (saggezza, temperanza, coraggio e giustizia?)? Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità?”. Un bel pugno allo stomaco che non risparmia nessuno. Continua Perniola, “ Se Berlusconi è da quasi vent’anni il protagonista della politica italiana non è solo per gli spettacoli che offre: se fosse così, bisognerebbe concludere che il popolo italiano è un popolo di cretini! […]. Dietro il commediante, il piazzista, il venditore di fumo, c’è qualcosa di anonimo, di neutro, direi quasi filosofico, che costituisce l’essenza del capitalismo finanziario, il quale non è fondato sul lavoro, ma sul gioco”. Dalla dialettica spezzata tra lavoro/gioco, e superando la trattazione su fine della famiglia, studio e lavoro, è opportuno soffermarsi sulla “fine dell’università e della borghesia”. Lungi dal ritenere Berlusconi il solo responsabile del “collasso dell’università italiana”, semmai colui che ne “ha raccolto i frutti”, ivi Perniola collega la deriva della classe borghese proprio a quella dell’università, fornendo una ragione lapidaria: “l’esistenza della borghesia non serve più al capitalismo, il quale oggi trova nella classe media un ostacolo all’espansione straripante del modello neo-liberistico”. Se la classe dirigente, la “classe media”, è divenuta scomoda perché costosa, l’Università di necessità non avrà più come obiettivo primario quello di formarne una – “indipendentemente dalle famiglie da cui provengono”. Dunque viene meno la ragion d’essere sia del sapere scientifico, sia dell’ordine professionale. Crudo rammentare al lettore il vizietto del baronaggio dell’università italiana, ossia quell’ “accanimento nell’impedire ogni mobilità sociale, riducendo i giovani in una condizione non molto dissimile da quella dei servi della gleba medioevali, che per nascita erano legati alla terra coltivata dai loro genitori. […] Azzerando ogni possibilità di ascesa socio-economica, (anche attraverso la svalorizzazione dei titoli di studio e la demotivazione dei docenti), il familismo amorale non trova più ostacoli nell’assegnare uffici … ai più incompetenti, ignoranti e corrotti. Anche qui Berlusconi … ha trovato la pappa pronta”. Dalla “borghesia che scopre che il capitalismo non ha più bisogno di lei” ci spostiamo alla vexata quaestio, “rispetto o disprezzo verso la cultura?”. Nell’introdurre il paragone tra la situazione occidentale e quella cinese, definita “per eccellenza” luogo della problematica culturale, per il vecchio continente Perniola parla addirittura di “odio: “Si parva licet, la questione degli intellettuali si trascina in Cina da due millenni e mezzo, come un problema di enorme rilevanza politica, mentre in Italia (con buona pace di Gramsci) è in fondo un argomento nuovo: anzi non è nemmeno un argomento, ma è l’aria di un’operetta […]. In realtà Berlusconi ha liberato l’ignoranza degli italiani da ogni cattiva coscienza, da ogni colpa, da ogni vergogna, portando a termine un processo iniziato nel Sessantotto sotto un’altra bandiera. Per dirla nel modo più chiaro possibile […] ‘Le persone istruite ci sono sempre state sul cazzo, ma prima non potevamo dirlo senza fare una brutta figura; viva Berlusconi che ci ha emancipato da questo complesso”. Una sassaiola sottoforma di parole che diventa sintesi epocale della devastazione dei tempi attuali: momento non solo di altissima riflessione, ma anche di bella letteratura, pagina che rende autentico il valore questo piccolo libro. Buona lettura.
di Federica D’Amato
“[…]
Per la sezione
TRADUZIONE DI POESIA OPERA PRIMA
l’attenzione dei giurati si è principalmente incentrata sulle seguenti opere:
Auden – Oratorio di Natale – Transeuropa 2011, traduzione di Vanni Bianconi
Karasek – Fuochi di bengala – Il ponte del sale 2011, traduzione di Leonardo Masi
Llull – Il libro dell’amico e dell’amato – Noubs 2011, traduzione di Federica D’Amato
Mikhail – La guerra lavora duro – San Marco dei Giustiniani 2011, traduzione di Elena Chiti
Rossetti – Donne d’amore – Barbès 2011, traduzione Luca Baldoni
[…]
La Giuria desidera inoltre segnalare l’eccellenza del lavoro compiuto da Masi, D’Amato e Chiti.”
QUI il link del Premio Marazza.
Ringraziamo il Premio medesimo , ovviamente Federica D’Amato, nostra autrice e collaboratrice, e tutti i nostri lettori.
Il timore era quello di sprecare energie dietro l’ennesimo libro fantoccio, messo su da due autori in cerca di fama. Mai cautela fu più inopportuna. “Vasco, il Male”, anatema lanciato contro il cantante Vasco Rossi, scritto a quattro mani dal critico musicale Paolo Talanca e dal pensatore Vittorio Alfieri, è un libro che finalmente ha dato risposta chiara, sensata al disagio che da sempre provo al solo immaginare la sgraziata figura del silfo modenese. E, ai fini del “trionfo della logica dell’identico”, non è un caso che io abbia utilizzato l’appellativo “silfo”: nella mitologia nordica, il silfo era uno spiritello d’aria in grado, attraverso i suoi sortilegi, di causare paralisi, proprio come accade quando si ascoltano le canzoni del performer nostrano: immobilismo, torpore spirituale, accidia; induttore di “paranoia”, oserei dire, ovvero generatore di paranoici, e in questo mi soccorre l’impietosa definizione elaborata dallo psicanalista Luigi Zoja “Il paranoico spesso è convincente, addirittura carismatico. In lui il delirio non è direttamente riconoscibile. Incapace di sguardo interiore, parte dalla certezza granitica che ogni male vada attribuito agli altri. La sua logica nascosta procede invertendo le cause, senza smarrire però l’apparenza della ragione. Questa follia “lucida” è uno stile di pensiero privo di dimensione morale, ma con una preoccupante contagiosità sociale. Raggiunge infatti un’intensità esplosiva quando fuoriesce dalla patologia individuale e infetta la massa”. Ma andiamo per ordine. Il libro di Talanca-Alfieri, non solo ha soddisfatto una esigenza di natura, come dire, biografica, ma ha in special modo innegabili punti di forza. Il primo è che è scritto bene: nonostante il tema induca nel rischio di far scadere il registro nella palude della divulgazione spicciola, i nostri autori restano fedeli al dettato della migliore tradizione europea di critica formalista, discendente diretta di quella che fu la numinosa esperienza della Scuola di Francoforte. Il secondo è che c’è una franca sostanza dietro il buon dire: tutto ciò che viene affermato è verificabile, riscontrabile in un’ipotesi di esperienza dell’approccio filologico al vero – ovvero, in questo libro la comunicazione, “il traumatico miracolo” direbbe Perniola, manca di strutturare il testo. Era ora.
Il terzo motivo è che questa invettiva contro “la mediocrità come ambizione” del signor Rossi, è prova di eleganza del pensiero contro la quale è difficile scagliarsi “in difesa di”, semplicemente perché non sussistono giustificazioni sufficienti a dimostrare il contrario: Vasco Rossi, sì come il gregge che ha strumentalizzato e che lo ha strumentalizzato, è il “male”. Quale male? Un male tutto italiano, anni ’80, un male di cui lo stesso Alfieri ci parla «Indubbiamente il titolo ha una buona dose di provocazione, ma non vorrei che il suo significato ne risultasse in qualche modo ridimensionato. Ogni cultura di ogni tempo ha sempre fatto riferimento a idee di bene e male in base alle quali orientare il vivere nel mondo di ciascun individuo, e nella nostra società dello spettacolo spesso le due dimensioni si sono invertite di ruolo. Mi sono concentrato sulle specificità dialettiche che il fenomeno-Vasco incarna in sé: l’immagine del dannato e dell’outsider ha giovato al cantante emiliano, a tal punto però da contraddirsi nel suo stesso concetto, diventando il personaggio più celebre e trionfante della nostra cultura nazionale. Ho introdotto il termine così deciso di male a partire dalla constatazione del nostro presente, un orizzonte dove la catastrofe sembra compiersi quotidianamente senza possibilità di scampo, e la mia tesi è che alcune figure abbiano contribuito più di altre». Dunque nulla che abbia a che fare col fanatismo dell’esser contro a tutti i costi, ma: «La scrittura di “Vasco, il Male” è nata dall’esigenza di voler indagare con serietà un fenomeno, un personaggio, un percorso artistico che tanto hanno influito nella società italiana e nel presente che ci troviamo a vivere. Vasco Rossi è, senza fronzoli, la più grande rockstar italiana di tutti i tempi; bene: provare a spiegarne i motivi è il minimo che uno studioso serio e coscienzioso possa fare», dichiara Paolo Talanca, proseguendo «nella prima parte del libro guardo da vicino il percorso artistico di Vasco, individuando una parabola sublime fino alla metà degli anni Novanta e poi un lento e inesorabile declino. Negli ultimi quindici anni non ha fatto che cantare la stessa canzone, ripetere l’identico. Io chiamo questi ultimi quindici anni il periodo della “canzone a una dimensione».
Quando comprendo ulteriormente l’utilità dell’operazione, chiedo a Talanca circa la funzione catartica del libro, ed egli risponde citando la famosa diatriba che molti anni fa vide coinvolti il critico Salvalaggio contra l’immoralità sbadata degli esordi del Blasco, con un ribaltamento della prospettiva che è da considerarsi anche risposta conclusiva nelle polemiche innescate dal volume oggetto di questa recensione: «Quale funzione? Vasco ha risposto al libro sul suo Facebook in maniera decisamente piccata e reazionaria. Sostanzialmente considera il libro una provocazione per farsi pubblicità e se l’è presa davvero a cuore. Bene: chi ha letto il libro sa che tutto è perfettamente motivato al suo interno. Ma non è questo il punto. Io credo che la cosa interessante sia il fatto che oggi Vasco vesta i panni di Salvalaggio e reagisca contro quella che secondo lui è una provocazione a un ordine costituito. Vasco è Salvalaggio: il meccanismo paradossalmente si è invertito. È significativo, in più, che oggi al posto della provocazione da sballati di Vasco si sostituiscano processi filologici, filosofici e critici. Insomma: se a cavallo tra gli anni Settanta/Ottanta la rivoluzione si faceva con uno spinello, oggi si fa col senso critico. A ben vedere, in quest’ottica il nostro periodo di crisi si rivela ben più interessante di quanto si possa pensare». Buona lettura.
Provando a pregare, di James Wright
Stavolta mi sono lasciato il corpo alle spalle, e piange
tra le sue spine scure.
Eppure,
c’è del buono a questo mondo.
Si fa sera.
E’ il buio buono
delle mani di donne che toccano forme di pane.
L’anima di un albero comincia a muoversi.
Sioro foglie.
Chiudo gli occhi, penso all’acqua.
Definirei questa poesia di Charles Wright magistrale nella sua bellezza.
Vi è un continuo moto ascensionale e discensionale dalla carne all’essere – e viceversa; tale movimento, che è sublimante la parola, informa l’ontogenesi delle immagini. Ecco, proprio le immagini, virtù della poesia, riposo della parola dopo tanto sforzo per trovarsi silenziosa, “sul modello del silenzio”, diceva Celan: Wright fa vaporare le immagini, esse risultano perfettamente aderenti all’intentio del dettato: pregare, dunque, parlare per effigi, opali, segni residuali.
“Stavolta mi sono lasciato il corpo alle spalle”: corpo e preghiera così si separano, subentra l’attenzione al vuoto, la preghiera dell’anima che avverte, nonostante il peso occidentale (quello “still”, quell’ “eppure”), il buono di questo mondo. Nella direzione della rarefazione che troviamo in questa, come in altre poesie della raccolta The branch will not break (Il ramo non si spezzerà, 1963), azzardiamo uno sguardo su Wright come illuminato epigone di George Trakl. A riguardo, l’oggetto metafisico per eccellenza di Trakl, il buio, ritorna nella nostra poesia proprio nel punto in cui essa scavalca il fenomeno, il corpo dimentica quel piangere e nel “buio buono” ritorna l’esperienza, l’erotismo nei confronti di ciò che è sostanza, “mani di donne che toccano forme di pane”.
Dopo tutto si rivela: le immagini ci sono, abitano il luogo della poesia: “sfioro foglie”.
Dopo il buio si fa totale perché “chiudo gli occhi, penso all’acqua”, subentro nella condizione del vedere.
Penso all’acqua, all’essere. Penso a niente.
Trying to Pray, James Wright
This time, I have left my body behind me, crying
In its dark.
Still,
There are good thing in this world.
It is dusk.
It is the good darkness
Of women’s hands that touch loaves.
The spirit of a tree begins to move.
I touch leaves.
I close my eyes, and think of water.
Walter Siti magister
di Federica D’Amato
Nell’andare in libreria c’è da soffrire.
In quell’improbabile pellegrinaggio larvale delle nostre anime su facebook, twitter et alii, c’è anche da star peggio: chi ti molesta in libreria con romanzi privi d’ogni decenza escatologica, in rete pompa decadenza. Per non parlare di coloro che essendo ubiqui sui blog letterari, si considerano scrittori, e vai a vedere al massimo hanno partecipato a qualche antologia. O gli esordienti delle grandi case editrici che si improvvisano critici letterari sui quotidiani del casato? Con un bagaglio culturale che può vantare tutta la letteratura dagli anni ’90 sino ad oggi, imbastiscono faide contro il sistema che li nutre, consumandoli.
Dunque, il Male. O l’indifferenza assoluta?
La seconda. Lo fa intuire Walter Siti, non con Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012) – la cui lettura sospiro da giorni, timorosa ma spietata ché lì dentro vi sia un risposta fatale. No. Lo fa con uno scritto occasionale che prepara, soffre le lascive brutalità del contemporaneo: nelle risposte al Questionario Moraviano, proposto da Nuovi Argomenti, n°40, serie quinta del Settembre/Ottobre 2007, omaggio a Moravia ad un secolo dalla nascita.
Alla domanda se abbia senso oggi parlare di impegno di uno scrittore, Siti secca gli entusiasmi, affermando “non riesco a pensare alla letteratura se non come a una forma di impegno”. E’ impegnato lo scrittore, anche il più valoroso, che oggidì informa il regime di realtà della letteratura? No, col danno irreparabile che “il più valoroso” non scrive più, ha abdicato silenzioso per non perire, ha compreso che “resistere non serve a niente”. Perché? Ancora Siti “la letteratura ben pettinata, quella che porta scritto in fronte ‘letteratura’, quella che intrattiene e ci fa sentire fighi, è semplicemente prostituzione e non vale la pena di parlarne”. Mi sembra una ottima descrizione del fenomenico riportato ad incipit della presente lettura.
Proseguendo, nella vexata quaestio degli equilibri tra diritti privati e pubblici, Siti fulmineo: “intorno alla letteratura in quanto letteratura non si crea mai consenso. Chi esalta il libro di Saviano fino a farne un manifesto del PD, in realtà non parla del libro di Saviano ma della moda contenutistica che si è creata intorno ad esso”. In quest’aria pestifera e plastificata, dove respira quell’ “in quanto”? Se per ontogenesi è carsico il suo movimento, com’è possibile la scandalosa focalizzazione sul presente che attua? Soprattutto: in un’orgia di consenso plenario, nella prospettiva orizzontale e digitale dell’esperienza, può essere considerata democratizzante la funzione del “vero” scrittore? (considerate le premesse di inattualità).
E veniamo al rigor mortis dell’indifferente. Siti: “Mi pare interessante l’indifferenza culturale. In questo campo gli indifferenti sono, direi: 1) quelli che si credono intangibili (e intatti) dalla deprivazione di umanità che la tecnologia ha imposto a tutto il mondo occidentale; […] 3) quelli che si cullano nel beato possesso di un’eredità culturale ormai inefficace e minoritaria, ma che loro credono maggioritaria e vincente; […] 5) quelli che usano la satira per congratularsi con se stessi; 6) quelli che negano l’emergenza, o fingono di vederla ma hanno fiducia che il male si possa sconfiggere con gli strumenti della politica internazionale e dell’ingegneria giuslavoristica (applicata da altri) […]”. L’indifferenza, che è una scelta e non una stanchezza successiva al trauma1, fa più male del male, perché rende davvero inanimate pietra di paragone e pietra angolare. Rende privo di senso l’acume degli articulator, i “riformulatori” (pietra di paragone), ovvero di coloro che “hanno la funzione di mettere a fuoco ciò che più è significativo e, nel contempo, lo fanno rivivere sotto una veste nuova; rivelano un retroterra culturale che stabilisce quello che conta e che dà un senso a ciò che si fa”2, ed uccide con forza pesticida il nume dei “riconfiguratori” (la pietra angolare), coloro che “trasformano una cultura in modo così radicale che, per risultare comprensibili, non possono più basarsi su un linguaggio esistente e su pratiche condivise. Di conseguenza, spesso non vengono capiti dalla gente della loro stessa cultura […]”3.
Aggiungerei, alla lista di Siti, che indifferenti sono anche coloro che ignorano completamente una tradizione, nel nostro caso letteraria, e sulle sabbie mobili della letteratura “figa” stanno edificando un successo di vendite, ma anche un’opera di avvelenamento del lettore, di qualsiasi lettore. Vorrei chiedergli com’è possibile restare immobili, non resistere, restare a guardare tutte questi silfi che si fanno chiamare scrittori, in tale menzogna perpetrando un vero e proprio crimine contro “L’esperienza”. Questa corpo gelido…
Non vi è più alcuna differenza tra l’egocrazia politica e quella culturale: “[…] Se viene avanti un nuovo medioevo, io sono pronto”4.
Federica D’Amato
Nome che stai al centro,
il tuo suono ciocca e s’imperla di voci
ma nessuna ti tiene, nessuna ti osa in
suono, in lettera e cifra. Nelle tue solitudini
di mai chiamato. Come tutto è assai strano.
A me sembra. Assai strano.
Ti piantòno, ti indago, mi avvicino in
millimetri. Ti ho nella voce
senza che esca in suono.
Mariangela Gualtieri, tratto da Nei Leoni e nei Lupi
1) Vincenzo, intanto ti faccio i nostri complimenti perché, così giovane, hai già composto due romanzi di tutto rispetto, Ginnastica e rivoluzione e il recente La cospirazione delle colombe. Ci vuoi accennare brevemente al primo romanzo? Quale è stata la tua palestra di scrittura: dove, come, quando hai compiuto le tue prime prove letterarie?
In realtà, non vorrei accennare al primo romanzo. È strano – ci ho messo tutto me stesso, quale ero allora, e il risultato gli assomiglia: agitato, ansioso, sovraccarico, impreciso, tutto sbalzi e strattoni e picchiate senza un bersaglio, o con un bersaglio che si rivela essere un ologramma, un fantasma, un fuoco di prisma. Se ci ripenso, cosa che mi sforzo il più possibile di non fare, mi intenerisce e mi imbarazza e mi fa venire voglia di pensare ad altro, come le lettere d’amore non spedite del liceo. Quando provo a rileggerlo trovo delle cose che mi piacciono, ma smetto subito. Parlava di cinque ventenni che vivevano a Parigi, volevano andare al G8 di Genova nel 2001 e alla fine non ci andavano, per colpa della polizia, di uno spacciatore messicano, di un anziano miliardario, e loro.
2) La cospirazione delle colombe, ambientato nel mondo dell’economia vissuto attraverso le esperienze di giovani bocconiani, è narrato in terza persona, senonché, sorprendentemente, a pagina 77, fa irruzione l’io narrante, un personaggio di secondo piano, ma, visto che viene chiamato in causa, si suppone che possa essere il vero motore occulto della storia, che segue gli avvenimenti senza farsi notare, ma che tutto inquadra dal buco della serratura. Una trovata hitchcockiana. Che sia un romanzo a tesi, e che ci sia qualcuno che voglia far passare una sua concezione del mondo, grazie alle leggi di una personale categoria morale…
In origine l’intenzione era un po’ il contrario: per me – da lettore – i romanzi che vogliono contrabbandare una tesi sono quelli che fingono oggettività (“in terza persona”, appunto). Inserire me stesso era proprio un tentativo di antidoto a questo contrabbando: dicendo dove sono io nella storia, come la vedo e perché, relativizzo o tento di relativizzare questa tesi – mettendola in bocca, fra l’altro, a un personaggio minore, marginale, che magari capisce poco di quello che succede. Ma forse è solo un alibi per una forma neanche troppo implicita di protagonismo.
3) In questo senso ti vedo come un nuovo Calvino, ovvero come quello scrittore che, partendo da un teorema per dimostrare qualcosa, alla fine giunge a una agnizione che però, potrebbe smentire le premesse date…
A farci ben caso, il libro contiene due teoremi, che sono diametralmente opposti l’uno all’altro. In questo senso – ovviamente non posso non sentirmi lusingato per il paragone – ma mi pare che quasi sempre Calvino sia troppo controllato, troppo limpido, troppo passeggiatore fischiettante nel fuoco incrociato della trincea. Il suo libro che amo di più – e che giudico davvero un capolavoro – è Il barone rampante, proprio perché secondo me lì il controllo gli sfugge, e il libro ha una tesi chiarissima che però è molto difficile da mettere a fuoco e si trasforma costantemente nel proprio opposto (c’è chiaramente una lotta fra “la ragione” e qualcosa d’altro: ma chi rappresenta la ragione? Cosimo, o gli altri?). In questo senso è un libro malriuscito, un po’ infetto, un po’ slabbrato (è anche quello con la trama più artificiosa, giustapposta): e questo, a mio parere, è un bene.
Testo fondamentale della letteratura catalana, il Llibre d’amic i amat è un raro gioiello di poesia filosofica il cui Autore, il beato Raimondo Lullo, realizzò nel 1283; nel 1995 è stata realizzata una edizione critica aggiornata di Albert Soler, di cui si offre per la prima volta in Italia la traduzione a cura della giovane studiosa Federica D’Amato. La pubblicazione di questo libro intende riportare
all’attenzione di un pubblico non necessariamente specializzato un’opera di profonda bellezza poetica, godibile da tutti quei lettori attenti al valore di un testo letterario. Il volume ha ottenuto uno dei massimi riconoscimenti d’ambito lulliano: il patrocinio economico e morale del Ramon Llull Institut, istituto ove è preservata, studiata e promossa la grandissima opera di Ramon Llull.
La pubblicazione focalizza l’interesse del lettore su di una figura eccezionale del nostro medioevo: Raimondo Lullo, maiorchino, siniscalco, poeta, missionario francescano, mistico, alchimista, scrittore, filosofo, teologo, avversato e perseguitato dall’Inquisizione, oggi riconosciuto Dottore Illuminato.
Federica D’Amato è una giovane studiosa abruzzese di letteratura, filosofia, scrive di critica letteraria e tenta la poesia. Dopo aver concluso gli studi umanistici ed aver viaggiato e studiato all’Estero è tornata in Italia, dove collabora con riviste letterarie e istituti di cultura; ha all’attivo diverse pubblicazioni e numerosi articoli di critica. Vive e lavora a Pescara.
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Ricorda di non dimenticare
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Sii chi vuoi, ma se sei te stesso è meglio!
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