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TONITA DI NISIO e/è “SUL CIGLIO DELL’OMBRA” di MARILIA BONINCONTRO (EDIZIONI NOUBS)


Tonita Di Nisio ha scritto un saggio sull’ultima opera di poesia di Marilia Bonincontro, “Sul ciglio dell’ombra” (Edizioni Noubs), con prefazione di Adriano Marchetti.

TONITA DI NISIO

 

  

 

 

 

“Sul ciglio dell’ombra” di Marilia Bonincontro

 

 

 

Aprire questo libro e poterlo guardare, sfogliare e infine leggere è partecipare di un grande privilegio: l’autrice, che tutti conosciamo come schiva e riservata, rigorosa al punto da apparire severa o distante, ci offre la sua “confidenza”, ovvero, nel senso etimologico della parola, mostra di avere fides-fiducia e speranza nei suoi lettori. Niente a che vedere con la facilità con cui oggigiorno personaggi più o meno pubblici raccontano vicissitudini personali al limite dello scandalo. Di quale confidenza si tratta? Di quale disponibilità generosa? Per comprenderlo, bisogna considerare prima quello che gli addetti ai lavori chiamano il corpo del libro, che è confezionato con rara eleganza, ma in modo che anche la materia racconti ciò che ogni pagina e ogni verso dicono.

 

 

 

Sulla copertina, vergato con la grafia sicura dell’autrice si avvolge l’incipit di “A Mario Luzi-In memoriam”, vate senza scettro, umile tedoforo della parola, ad indicare sotto quale segno si iscrive tutto la lezione etica del libro: elevare un canto in difesa della civiltà e dell’arte messe da parte e conculcate nel nostro mondo.

 

 

 

Un altro indizio per cogliere il significato dell’opera emerge dal titolo. SUL CIGLIO DELL’OMBRA suggerisce, a tutta prima, al lettore l’idea che l’opera sia nata banalmente dal desiderio di lasciare un segno prima che arrivi l’ora di attraversare l’Acheronte. Non è così: è già stato adottato in francese per la raccolta Au versant de l’ombre , che lo trae, a sua volta, dalla lirica Euridice in esso contenuta. Ma la Poetessa non è Euridice, è Orfeo, che in limine mortis non sa staccarsi dalle persone amate e, per farle rivivere, le evoca, le richiama tentando di riattraversare la “linea d’ombra”, di spezzare il diaframma che le colloca in una distanza invalicabile. Quando gli amati sono la madre, il fratello, gli amici, è un Orfeo misteriosofico, sacerdote degli affetti, che recupera nel grembo della memoria il tempo perduto. Ma, quando gli amati sono i poeti, i pittori, i danzatori, i musicisti, gli attori (Emily Dickinson, Rilke, Cristina Campo, Giorgio Caproni, Giorgio Morandi, Jacques Brel, Rudolf Nureyev, Pessoa, Marina Cvetaeva e mille altri) Orfeo torna ad essere solo il poeta per antonomasia, che ci insegna che c’è l’arte prima dell’arte e che ci può essere l’arte solo dopo l’arte.

 

 

 

Ma ora apriamo il libro. Introduce la silloge di testi una penetrante e persuasiva lettura critica di Adriano Marchetti, che, mentre viene ragionando sui modi e sui temi della sua poesia, definisce fondatamente l’autrice un classico moderno. “M.B. è indubbiamente una delle attuali voci considerevoli della poesia italiana.” L’analisi di Adriano Marchetti è una lettura magistrale e, per le interpretazioni a venire, sarà impossibile prescinderne. Ovviamente, chiudono il libro, in una sorta di ring-composition, le pagine appassionate dell’amico editore Massimo Pamio e il devoto ringraziamento dell’amica di sempre e curatrice dell’opera Pina Allegrini, all’archivista della bellezza e della memoria: dico ovviamente poichè sono stati tra i primi lettori delle sue raccolte, quasi sempre tenute gelosamente chiuse nei cassetti segreti e talora pubblicate “alla macchia”. È anche grazie a loro che possiamo nutrirci di questo pane di poesia.

 

 

 

Poi le raccolte, dal 1976 al 2005, tra le tante prodotte da Marilia Bonincontro; un viaggio nel tempo e nello spazio della pagina su una tastiera lessicale preziosa, un percorso non di sperimentazione, ma di esperienze diverse, legate da un’ intima coerenza: I. Con le foglie d’autunno; II. Microstoria; III. L’angelo obliquo; IV. Il nome del deserto; V. Deserta luce ; VI. Au versante de l’ombre ; Croce copta.     

 

 

 

Le liriche sono precedute e intervallate, ma meglio farei a dire “contenute” dalle calde fotografie di Bruno Imbastaro che ci propongono un singolare, ma raffinato ritratto indiretto dell’autrice, ritratto non fisionomico, ma affettivo, intellettuale e culturale. Ci aggiriamo così anche noi nei penetrali della casa di cui Marilia confidenzialmente ci apre, anzi spalanca le porte. In quella che Massimo Pamio definisce la wunderkammer di Marilia, cioè la “stanza delle meraviglie”, lo sguardo è rapito dai tanti retabli, cioè dalle pale d’altare con vari scomparti in cui le foto del fratello Achille , della madre, di Virginia Wolf, di Marcel Proust, di Maria Callas, di Edoardo e di tanti altri poeti lumeggiano un panorama di oggetti, di quadri, di poster, di libri, di dischi, rari e non, ma comunque sempre preziosi. Giriamo così nelle “dorate stanze” di una donna “abitata di musica”, “abitata di poesia,”, “abitata di Bellezza” in un una parola. Non c’è snobismo nell’aprirci signorilmente questo posto dell’anima, ma la necessità di aiutarci  a situare- per riusare le parole di un biglietto inviato a me nel 2006- “i frammenti del mio mondo di Ombre, questi echi di voci che accompagnano le mie albe e le mie notti.” Brodskij nel suo discorso per il Nobel affermò che l’estetica è la madre dell’etica: riconosciamo vera l’affermazione del poeta russo davanti alle immagini di una casa che racconta il culto della lettura e la passione per le arti come momento fondativo della coscienza di sé e dell’altro. È per questo che troviamo logico, essenziale persino che Emily Dickinson, Rilke, Cristina Campo, Giorgio Caproni, Giorgio Morandi, Jacques Brel, Rudolf Nureyev, Pessoa, Marina Cvetaeva e tanti altri siano presenze che si traslano con naturalezza sulla pagina accanto ai lari domestici, disperatamente amati.

 

Vado -con il mio liso strascico

 

di toppe -una per ogni addio.

 

 

 

Il Canzoniere,- mi si passi la definizione- si apre con la sezione dedicata esclusivamente alla madre, che canta lo strappo lacerante e mai -letterarmente- risarcito: la parola che più vi risuona è silenzio, Silenzio come segno dell’assenza di Colei che denominerà, in una lirica di molti anni dopo, Demetra, come la dea nutrice, artefice delle stagioni e della vita. Mi porta il tuo silenzio…(pag. 37)Ma la Figlia, sebbene sacerdotessa di un culto misterico, eleusino, privato, non si sentirà mai Proserpina, ovvero capace di rigenerare la vita.

 

Sulle mie rive

 

non fiorisce il loto. (pag.57)

 

E il loto, si sa, dà il privilegio dell’oblio, ma è anche e sopratutto il fiore della vita che nasce, della continuità dell’esistenza. Non sorprende perciò che la Suite 1965 – Sine nomine sia dedicata interamente al bambino mai concepito :     

 

come spiegare al mondo

 

quanto amore t’ho dato

 

negandoti la vita?

 

Non generare, pur desiderandolo, è una autocastrazione per amore, implacabile amore (pag. 72), per risparmiare a chi verrà il dolore della Storia , e più in generale della condizione umana:

 

Mi mancherà il tuo sorriso-

 

ma t’avrò risparmiato….(pag.70)LEGGERE

 

Il dialogo con il Figlio “pensato” è initerrotto: riprende struggente ne I frammenti di una frase infinita del 1992 con la tenerezza e, arriverei a dire, la parzialità, lo spirito di parte di una madre che vanta la propria creatura, mettendola a paragone con i figli di altre madri, con i figli della terra ( pag.104)

 

T’ho dato ali bianche-

 

vele dell’impossibile.

 

 Le ragioni dell’orgoglio si motivano:

 

…A te solo appartieni

 

al tuo non essere (pag.104)

 

Ti basta il respiro

 

dell’eterno…….(pag.105)

 

…….Non t’ho fatto

 

a me simile- mortale (pag. 106)

 

E, mentre alla madre resta solo il suo canto mortale, il figlio, luce errante, è metamorfizzato in angelo, il cui sorriso è ombra.

 

 Angelo e Ombra sono due termini chiave nella produzione di Marilia Bonincontro e ci permettono di isolare due parole-cardine della sua visione del mondo e del suo mondo poetico.

 

Riguardo ad Ombra, voglio ricordare quel che ha detto Adriano Marchetti:”I componimenti …sono germinati da una vera e propria skiagraphia, una scrittura dell’ombra, dove gli eventi, in prossimità di scene silenziose, sfuggono alla narrazione, lasciandosi appena percepire in una teoria di lampi, che si colgono in uno spazio di tempo attraversabile solo dal canto.” Bisognerebbe contabilizzare i numerosi utilizzi del termine ombra e sviscerare le varie accezioni del termine per la Bonincontro. Ombra è per lei il Mistero dell’esistenza. È anche, ovviamente, la trascrizione dell’endiadi pulvis et umbra oraziano. Sono certa che nel suo lessico purissimo ed eletto la parola nasca da una lunga vitalità del termine in poesia : dalla Lezione sull’ombra di J. Donne, che Cristina Campo e Patrizia Valduga hanno tradotto, all’ Elogio dell’ombra di J.L.Borges, dal primo temuta al suo apparire perchè potrebbe offuscare l’amore, che si alimenta di una luce coraggiosa; dal secondo apprezzata perchè non è ancora la tenebra della cecità e gli consente ancora di ritrarre la sua identità, nella quiete della vecchiaia. Ma credo che la suggestione più forte sia quella  che deriva dai notturni lunari di Leopardi: le ombre creano mille figure indefinite e forme che illudono l’uomo e mascherano il volto della verità; come in alcuni quadri di Friedrich, l’ombra accoglie l’osservatore/gli osservatori che, sul ciglio di un bosco o di una strada osservano una luce dello sfondo che suggerisce un mondo spirituale ed eterno. Da ultimo, mi piace pensare alla Linea d’ombra di Conrad, che equivale alla paura di non farcela, la paura di sbagliare e della sorte avversa o di un dio ostile, sempre in agguato. C’è tutto questo ed anche di più nel lessico evocativo della B.

 

 

 

Angelo è Emily Dickinson, obliqua luce, angelo dalle ali mozze, celesta, arpa sepolta ,”tema e nome ricorrente…inseparabile dal (mio) suo mondo interiore” ( M. B. scrive in una lettera del 7 dicembre ’06) qui cantata nella Sonata in due tempi del 1989-1990. E angelo dal viso bizantino è un’altra “trappista della perfezione”:Cristina Campo (pag.94). La distanza di Giorgio Morandi dalla pura materialità è l’iperuranica condizione di distacco delle gerarchie celesti.(pag. 95-96) Ancora dalla pittura un’altra potente suggestione: l’Angelo di Klee, che ha lo sguardo rivolto al passato, quell’Angelo cheWalter Benjamin definì un'”allegoriadella Storia“, l’angelo della catastrofeche guarda le nostre rovine“. E si potrebbe continuare a proposito di Rilke (pag. 90), di Caproni (pag. 98), di Nurejev (pag. 100), del poeta assassinato (Pasolini?) (pag.177): tasselli di un mosaico di perfezione, terribile nel senso etimologico del termine, perchè pietrifica chi cerca a sua volta la perfezione. Quale la perfezione quella cercata da Marilia ? Quella  della parola alta! La memoria corre a quel che si è detto per l’amata Emily Dickinson, che avrebbe concepito l’idea di diventare poetessa avendo come riferimento la lotta di Giacobbe con l’angelo.Giacobbe, riconoscendo la sua limitatezza, chiede alla creatura angelica di benedirlo: applicato ad Emily e a Marilia la benedizione coincide con il dono della Poesia. Adriano Marchetti  ci ricorda che, nella teologia di Dante, gli angeli conoscono direttamente, senza mediazioni; agli uomini invece occorre la mediazione della parola. E qual è la forma eletta della parola? La Poesia, comunque espressa, il canto mortale.

 

C’era il Silenzio-

 

poi venne la parola.

 

……………….

 

Queste parole oblique-

 

che dicono amore-

 

che dicono dio-

 

angeli abortiti.

 

C’è, nel resto del Canzoniere, un affollarsi di presenze angeliche, letteralmente “nunzi”, che svolgono i loro compiti in un’atmosfera algida : d’altronde il sovramondo è raggelato ed enigmatico. In Deserta Luce baluginano le apparizioni dell’Angelo muto, dell’angelo del mare, dell’angelo della morte , dell’angelo senza ali, dell’Angelo del Nulla (pag. 163, 176-177). Sono epifanie in cui si misura la loro indifferenza alle umane vicende:

 

Infallibile – mira-

 

                  l’angelo baleniere ( Navis Argo, pag.123)

 

oppure

 

…….La notte

 

già scivola dai fanali

 

                  coi suoi angeli perversi(Pioggia, pag.184)

 

E ancora

 

Gli angeli – con ali

 

verdi o bianche-

 

la loro parte recitano

 

tra cielo e terra-

 

                 come si conviene.(Controcorrente, pag.202)

 

E di nuovo

 

 Il cielo come il mare

 

e gli angeli

 

addormentati sui pennoni

 

di una nave fantasma ( pag.2012)

 

Non vi è posto per gli angeli comunemente intesi come protettori dai pericoli: i bambini di San Giuliano di Puglia sono stati

 

Salvati o sepolti-

 

traditi….dalle fole

 

di angeli custodi.

 

( A tutti i bambini di San Giuliano di Puglia, pag.242)

 

Non c’è posto per loro se non in una concezione improntata al buonismo, che Marilia Bonincontro respinge, mentre afferma l’ateleologia della natura e della storia, il dolore della vita marchiata da tante sofferenze e, in più, immedicabilmente dall’ingiustizia della morte degli esseri amati: in quest’universo antiprovvidenzalistico,

 

C’è sempre un ladro-

 

cui non si perdona-

 

si chiama dio-

 

         natura o cieco caso.(pag.146)

 

Sentiamo convergere nel “centro segreto” (Borges) del pensiero dell’autrice i cammini del rovello esistenziale e metafisico dei grandi: Leopardi in primis, poi Montale, Caproni, Luzi, Sereni tra i tanti, che si sono dibattuti tra sofferto nichilismo e disperata fame di Assoluto.

 

Dal nulla al Nulla (pag.186)

 

Lettura integrale- legge Pina Allegrini

 

Nel corso delle pagine della silloge, l’enunciato si fa sempre più secco

 

Non siamo che semi

 

 del Nulla-

 

fioriti-feriti-recisi.

 

Oppure

 

Non ha ragioni

 

il  Nulla…….

 

E noi -suoi figli-

 

Persi a dargli un senso.

 

I testi che chiudono la raccolta, In memoriam e  Sadness, (che M. definisce “quasi un oratorio- per due voci, arpa e contrabasso”)- oltre a riepilogare e definire uno dei temi decisivi del libro, quello dei morti,  riassumono anche la poetica della Bonincontro: si rivela netta la distanza dalle origini ermetiche, e dunque dalla tradizione simbolista che ne sta alle spalle. In questo dissonante/e tarato-imbarbarito/ tempo che ci è dato, l’io lirico non cerca una comunione con gli oggetti o un contatto la natura:  ricostruisce tramite i nomi di Luzi, Mozart, Marina Cvetaeva, Puskin, Shelley, Keats e Leopardi, un proprio itinerario intellettuale e constata che al presente, essi scendono “nella fossa comune”. Una volta scartati, rimossi e sepolti nell’anonimato, non varrà più la pena di vivere per l’interlocutore che tesse il filo dei ricordi torto e ritorto, piagato tra le dita. L’ultimo verso, preso in prestito da Lorca, recita: “Dorme, non resta niente.” È forse una resa ? Un invito ad accettare la mediocrità e la meschinità del nostro tempo? Per far questo Marilia non ci avrebbe schiuso generosamente le porte della sua Casa per la Poesia, nè ci avrebbe fatti inoltrare nel suo continente poetico ove si tocca ad ogni verso l’inquietante mistero della perfezione.

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 Bruno Imbastaro fotografa Tonita Di Nisio, Pina Allegrini, Marilia Bonincontro

 

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SUL TRAMONTO DELLA TRADIZIONE CULTURALE di Massimo Pamio


Uno dei “Grandi Consiglieri dell’Istituzione” letteraria in Italia è Filippo La Porta, acuto intellettuale come pochi, il quale, con la solita perspicacia nell’individuare e nell’affrontare le novità e le trasformazioni in atto nella società, in una recente serie di programmi radiofonici di Rai Radio Tre dal titolo Passioni si interroga, a partire dalla crisi della trasmissibilità della eredità culturale alle nuove generazioni, sull’attuale appannamento della tradizione, sul venir meno dell’amore per la cultura umanistica occidentale, ritenuta “parco a tema”, “spettacolo consumistico” o “cabarettistico” a causa di una serie di motivi: la crisi delle utopie e delle ideologie; lo scemare della importanza e della significatività della letteratura e dell’arte, retrocesse a una delle tante specie di consumo; il cambiamento in atto del significato e del ruolo della cultura; il solco che si è creato tra le generazioni (il rapporto maestro-discepolo ridicolizzato dall’autorevolezza di Wikipedia), il generale disorientamento pedagogico-educativo, del mondo dell’istruzione e della formazione. Tant’è che oggi, afferma La Porta, un giovane scrittore nasce non dal passato ma da se stesso, e si forma su film, media, romanzi dei suoi anni, esulando da tutto quello che è accaduto nel passato, perfino rimuove il dolore e il caso da quella centralità che occupava presso gli scrittori del Novecento.

Le notazioni del critico mi invitano a proseguire nella direzione da lui tracciata, per scavare ancora più nel particolare, e  formulare una complementare domanda: la letteratura oggi non è più capace di trasmettere la tradizione umanistica?

Come molti dati sensoriali e molti aspetti del sentimento si stanno perdendo – pudore e imbarazzo, senso della vergogna, attitudine alla devozione, fervore nella fedeltà, nel consacrarsi, vcazione allo zelo e allo spirito di sacrificio   – denunciando il cambiamento in atto del sistema percettivo, così la sensibilità estetica sta mutando se non riducendosi.

La Grande Macchina Desiderante della letteratura (cfr. Deleuze e Guattari) che non cessa mai di godere di se stessa, che tende a soddisfare le condizioni di un’enunciazione collettiva a fini estetico-retorici, si è arenata.

Quali le ragioni?

L’abito fa il monaco

Ai nostri giorni, i giovani individuano con un’immediatezza disarmante carattere, personalità, classe sociale di un loro coetaneo. Basta osservare il vestiario, le marche degli indumenti e da quelli e da un paio di scarpe ecco chiarirsi gusti e sentimenti e sogni del ragazzino. Gli adolescenti dai 12 ai 15 anni costituiscono il target più appetibile, gli utenti verso i quali si dirigono le migliori offerte del mondo produttivo, perfino quelle dell’industria editoriale. Da un momento all’altro ci si aspetta che un tornado commerciale si abbatta su di loro, cambiando mode e tendenze. Questi individui – ma non solo loro – oggi sono fatti a fettine. Un processo che ha a che fare con la disumanizzazione e la reinvenzione (o previsione) dell’umano.

Nei romanzi dei giovani esordienti si accenna alle Converse o alle Tod’s, all’I Pad, trascurando la descrizione degli oggetti. I protagonisti portano le cuffie e non ascoltano una melodia seducente bensì Fix me dei Coldplay. Nomen omen? Oppure la cosa è la conseguenza del suo nome-nume (il brand, il marchio)? La cosa produce estasi, sospende il presente e lo inchioda alla sua responsabilità di essere il marchio del destino (l’alter ego ma anche l’orizzonte ultimo) dell’uomo. La caduta (o meno brutalmente l’essenzializzazione, la scarnificazione) stilistico-linguistica e dell’immaginario si accompagna a quella estetica, Non siamo di fronte a una letteratura di consumo, ma a una letteratura che si consuma. La scrittura è funzionale al feticcio della letteratura, cosa tra le cose. L’uomo non è tout court un consumatore, ma si consuma, si assottiglia nella sua umanità, si essenzializza, perde, decade, tramonta. Il sentimento è un grumo estatico, un ictus che azzera, annulla, e crea finzione, una finzione che ha a che vedere con l’assoluto, ovvero con la sospensione del tempo in un solo istante. L’immagine è la vera icona in cui il mondo si dà, si sconta, si rilascia. L’uomo, nell’immagine, si fa specchio e non protagonista del vedere. L’immagine del consumo è l’immagine stessa dell’istante, è il rivelarsi del Tempo. Sullo schermo televisivo o dell’I phone o del computer, il volto non è un volto, ma il volto, l’ideale del volto che induce a essere tutti quel volto: il consumo vero è quello della finzione.

Non si può immaginare il presente, non si può fingere il presente. La mancanza della finzione consuma la letteratura. L’estesizzazione diffusa azzera il bisogno della finzione.

La Porta che cita di George Steiner l’ipotesi secondo cui siamo entrati nella fase della post-cultura, in cui la cultura cambia significato, per avvalorare tale assunto si appoggia al commento di un giovane che ritiene La tregua di Primo Levi un romanzo “molto intrigante”, correggendo poi il tiro e aggiungendo di non voler sostenere “che questo aggettivo così assurdo, così grottescamente improprio riferito al libro di Levi esprima un nuovo senso comune”. Però, conclude sibillinamente, “qualcosa ci dice su questo tempo e sulla post-cultura”. In verità la frase rivela proprio un nuovo sentire, e riassume magistralmente con un paradosso la mutazione del sistema percettivo e sensoriale che sta investendo l’umanità e la sua concezione estetica e linguistica. Un sentire disumanizzato, che avverte il dramma della guerra e dei deportati senza dolore, senza il tempo del dolore. Al centro del presente assoluto è l’individuo immortale che con noia assiste al formarsi delle immagini del corpo, infinitamente proiettato dalle cose, nelle cose, per le cose.

Qualcuno definisce tale dimensione nei termini della fine della civiltà occidentale, come Alessandro Alfieri che rileva nei Frammenti della catastrofe: “La catastrofe è lo spazio (…) della consapevolezza dell’inevitabilità della Fine (…) che coincide con le cose stesse (…). Oggi tutto è frammento (…) che non si ricompatta mai, perciò raggiunto il margine finisce e ci getta nel vuoto”.

Dove sta la cultura? La morte dell’estetica artistica quale luogo privilegiato dell’enunciazione del discorso del desiderio e dell’immaginario collettivi

Raggruppati in sottoinsiemi di categorie, sottoposti a statistiche e ad algoritmi che ne prevengono aspettative e desideri e ne pianificano i consumi, quantificati, cosificati, aperti nelle viscere, sviscerati e offerti in sacrificio al dio dell’Immaginario Consumista, per desiderare e sognare il consumo che a loro spetta per eredità, censo, nazione, gruppo, solitudine, impagliati e mummificati dal tassidermista, eterodiretti, gli individui sono presi nella rete (non solo del web) come pesciolini, anestetizzati dall’isteresia del sociale, che coniuga l’estetica con l’isteria consumista. I sentimenti sono slogan nelle canzonette, il destino del singolo è uno slogan negli spot pubblicitari. Tutto è narrazione (parestetica), gli scrittori di romanzi concorrono alla scrittura in un mercato che li vede comunque perdenti o marginali, mentre il mondo giornalistico etichetta retoriche sulla scena della cronaca della politica del sociale e il linguaggio tecnico-scientifico decora slogan sul corpo – ultima Thule della storia del conflitto dei segni. Le masse, soggette a una collettiva ipnosi d’ordine nevrotico-estetica che sfocia, con l’avvento del web, soprattutto presso i giovani, in una sindrome dissociativa bipolare, sublimano gli inconsci desideri di successo e di potere partecipando al consumo sempre più frenetico del pianeta-oggetto-merce. Nel mondo divenuto merce le utopie ideologiche crollano, sostituite da narrazioni che risvegliano le cose dal loro lungo sonno metafisico, subito promosse a puri splendenti oggetti del desiderio. Il Sistema della Pianificazione globale inventa l’uomo servo e dio delle Cose, attraverso la fase produttiva sostenuta dall’apparato pubblicitario e la fase consumistica, appoggiata dalla spettacolarizzazione della realtà. Il generale plagio fisico e metafisico in atto, destabilizza le culture locali e le relazioni e gli scambi e i conflitti tra culture, indebolendo la biodiversità del pensiero e delle tradizioni, scuotendo alle radici valori e postulati di culture millenarie, come quella umanistica. L’arte e la letteratura della civiltà capitalistica occidentale perdono il carattere artigianale e individuale, la manualità, la conoscenza dei mezzi e degli strumenti di base, dai pigmenti alla complessità sintattica, in una sorta di masochismo autoespropriativo che dimentica tradizione, memoria, storia, il portato millenario di ricchezza, scienza ed esperienza. Gli artisti e gli scrittori si inoltrano nel deserto del presente assoluto, come fantasmi – a loro viene affidato il compito di approfondimento che i giornali quotidiani non fanno più, ossia di chiosare il reale, quale deboli commentatori dell’hic et nunc, opinionisti a fini estetici del reale, in un maquillage che si rivela spesso kitsch, con effetti di un lifting mostruoso. Nel “presente assoluto” non c’è tanto bisogno di dialogare con la tradizione, quanto di far comunicazione (marketing) del mezzo espressivo di cui ci si avvale, di pubblicizzare o di far manifesto pubblicitario del prodotto artistico (fino a renderlo un brand, un marchio riconoscibile del nome dell’Autore). Nell’opera d’arte deve essere inclusa oggi la “confezione” (si spiega così in letteratura l’invasione della letteratura di genere, del poliziesco, del noir, del thriller, del legal thriller, del romanzo giallo-misteriosofico-storico o dell’inchiesta giornalistica estrema alla Saviano, reality spy show). In mancanza di un dialogo con la Tradizione, scomparso il futuro, letteratura e arte si appiattiscono sul presente, con cui sono costrette a misurarsi; azzerano la loro millenaria superbia, la loro supposta “superiorità” (morale, immaginativa, critica?) sul reale, e, non potendo svilupparsi in ampiezza per la ristrettezza degli orizzonti, negano di aver avuto una vita propria e alternativa, svoltasi nel passato, a cui artisti e scrittori dovrebbero rendere sempre conto, come a un tribunale, mentre invece sono costretti al giudizio dello spettacolo consumistico e mediatico. In futuro, la letteratura e l’arte rischieranno di dover rispondere dei meccanismi inconsci che le hanno originate.

La letteratura non trasmette più la Tradizione

Se da una parte si assiste alla fine della manualità, inverata nella manipolazione tecnologica delle immagini che dà vita a una ironia fredda, a una condizione distaccata e cold per l’arte, la letteratura pare affondare nella crisi della lingua, che in Italia non costituisce più la mitologia fondante dell’identità nazionale a causa dell’invasione della lingua inglese, impostasi come media di riferimento della tecnologia e dell’informatica (la lingua dell’impact factor), lingua di riferimento dell’idea fondante del “presente assoluto”.

Il romanzo viene manipolato dall’industria culturale e subisce mutazioni: 1) l’appiattimento e l’omologazione stilistica, grazie agli interventi degli editor sui romanzi, lo stile individuale è bandito e abolito, il romanzo di un esordiente deve osservare lo stile di tutti gli altri, i romanzi degli scrittori esordienti italiani sembrano usciti dallo stesso allevamento di scrittori in batteria o dalla stessa suola di scrittura creativa; 2) gli intrecci sono semplificati, la trama è ridotta all’essenziale, forse perché si ritiene che il lettore non possa affrontare più di un certo numero di personaggi e di situazioni; 3) maggiore attenzione al fenomeno sociale, il romanzo deve avere sempre un’attinenza con problemi della cronaca e del presente, c’è un dovere letterario di cronaca, ben vengano i romanzi sul mondo dell’economia, dell’azienda; 4) maggiore attenzione al dato morale, lo scrittore deve essere un buon opinionista – deve essere il corifeo di una nuova etica; 5) ostentazione dell’appartenenza a un genere o a una contaminazione di generi, in crisi appare soltanto la letteratura di fantascienza, perché parlare del futuro oggi è un anacronismo. A mio avviso, perfino la letteratura per ragazzi che tanto viene osannata è una letteratura di genere per di più pompata per motivi puramente commerciali (ipocritamente contrabbandata come un impegno sociale per riavvicinare gli adolescenti alla lettura). 

Il controllo passa attraverso il linguaggio, ridotto a slogan politici ed economici che sempre ipocritamente vengono sostenuti nei talk show televisivi sotto forma di falsi conflitti tra parti avverse, in realtà tutti miranti al trionfo di parole d’ordine (spread, debito sovrano, core inflation, spesa pubblica, ecc.) su cui la gente si deve confrontare, evitando il dialogo sul sociale perché vige il periodo dello smantellamento dei diritti (cfr. John Berger, Contro i nuovi tiranni) e dei beni comuni, processo da mantenere segreto. L’economico occulta il sociale, l’aziendalizzazione e la privatizzazione vengono mostrate come virtuose rispetto alla gestione pubblica.

La letteratura italiana (sotto la spinta e sotto l’egida della letteratura statunitense) proietta la componente estetica sullo sfondo,  anzi, la depone, la ignora, perché quel che conta non è la bellezza, ma la messa in scena di un lungo episodio da serial televisivo, la sceneggiatura di un film di successo. Ecco che possiamo leggere bei dialoghi, intrecci interessanti pur se noiosi, che descrivono ambienti di successo, luoghi dell’immaginario popolare.

Una letteratura “caricaturale”, che fa il verso a se stessa, che vive in funzione di una statistica e di richieste di un target di riferimento (generalmente nazionalpopolare) che deve far presa sull’emotività da “business” che anima buona parte dei potenziali consumatori.

È di questi giorni il film La grande bellezza di Sorrentino, in cui appunto la bellezza è un fondale, una scenografia che riposa sull’orizzonte, lontana dalla nostra vita, sebbene visibile. Il vero vuoto che ci appartiene è la nostra vita, e la bellezza è ormai un orpello, forse nemmeno fonte di un moto di nostalgia, che denuncia nient’altro che il nostro horror vacui.

I romanzi attuali non sembrano avere alcuna attinenza con la Tradizione. I giovani non leggono, la loro conoscenza letteraria si arresta agli anni Ottanta, non va oltre. Elsa Morante e Gesualdo Bufalino esprimono una lontananza epocale, appartengono all’arché della letteratura.

Infine, il ruolo dello scrittore non è più quello dell’intellettuale che ha un qualche peso all’interno della società,  che può con la sua voce indurre molti alla riflessione (il caso di Pasolini è emblematico). Lo scrittore è diventato un professionista del mondo editoriale, un dipendente precario malpagato, che spera di essere assunto a tempo indeterminato e perciò si mostra fedele alla sua azienda fino in fondo e ne sposa le scelte pubblicitarie, ne approva le proposte, esalta editor, impiegati, funzionari, hostess della scuderia a cui appartiene, sperando di diventarne un cavallo su cui punteranno le loro attenzioni. La sua dignità sociale è completamente azzerata.

La letteratura non soddisfa più il bisogno di finzione

«Gli uomini leggono, perché quasi come il pane, hanno bisogno di finzione» scriveva Georges Simenon. Oggi la letteratura ricopre questo ruolo in modo marginale, sopraffatta da videogiochi, da giochi di ruolo, da film, corti, videoclip, da quella fonte continua di immaginario che è “You tube”, da quella riserva indiana per finzioni socialmente corrette che è “Facebook”. La letteratura era il mediatore tra la realtà e la finzione che produceva la figura del sognatore-lettore, soggetto liberato dall’identità sociale e collettiva che diventa qualcosa anziché il nulla del proprio indossare la maschera dell’individuo. Un di più che lo riconnette al desiderio, alla passione: la letteratura giocava in favore della fede dell’individuo nelle proprie qualità e possibilità, ma soprattutto riempiva il suo vuoto in concorrrenza con l’Altro, ovvero con l’Ordine Simbolico sociale che gli imponeva determinate condizioni e comportamenti. Il cinema 3 D irride la letteratura ma perfino l’uomo, ponendo lo spettatore al centro di una condizione di sovraeccitazione quale attore e protagonista di un sogno a occhi aperti in cui ogni attimo è liberazione, in cui ogni segmento di finzione è liberazione ma da che cosa se non c’è tempo per l’elaborazione simbolica dell’esperienza?

Il nuovo alle porte

Il nuovo bussa alle porte, ma non sappiamo che cos’è, chi è, come si presenta. La società sensazionalista in cui viviamo ci ha disimparato a riconoscere il nuovo. Se tutto è nuovo, nulla è nuovo. Pochi riescono a intravedere. I profeti tacciono. La poesia, la letteratura annaspano, boccheggiano. Una voce ecco si affaccia, ma è quella della classicità, è la voce di Marilia Bonincontro, l’autrice del libro di poesia più importante degli ultimi cento anni, che enuncia a chiare lettere nella sua opera Sul ciglio dell’ombra: “S’attardano i secoli/ e le memorie e i passi/ dei vivi sui sentieri/ d’ogni necropoli-/ e muti si confondono,/ fatti leggeri al vento/ dei giorni provvisori”. E’ l’ultima voce della Tradizione che si consegna al Nulla: “Dal nulla al Nulla/ o dal nulla all’Essere,/ forse soltanto un soffio,/ un battito d’ala/ o forse stazioni di transito,/ forme deserti, oceani,/ forse viaggi infiniti/ nella vertigine del tempo,/ forse attese anni-luce/ nelle galassie del Silenzio”.

 Filippo-La-Porta

alfieri

sulciglio

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RETABLI DI MARILIA BONINCONTRO


Marilia Bonincontro ha il dono dell’assenza: sistematica, ostinata, orgogliosa.

Un dono tanto prezioso ché le sue delicate apparizioni, i suoi slanci di presenza hanno tutto il gusto di capovolgere il mondo ed aprirlo alla festa del colloquio, mai banale mai scontato, alla festa della mente.

Noi Abruzzesi abbiamo una Cristina Campo nostrana e non lo sappiamo.

Non lo sappiamo proprio a causa di questa sua volontà di essere sempre assente. Ma è lì, con una magia di montaliana memoria, che si invera l’incanto di Marilia: grazie a questa assenza la Bonincontri passa la sua vita tra i libri, in un’architettura fatta di carta, immagine e somiglianza del magnifico edificio della sua mente.

Oggi vi doniamo tre poesie tratte da Retabli, Noubs 2006 (link per catalogo), nella speranza che la magia di cui vi parliamo catturi anche voi.

MARILIA BONINCONTRO

Retablo di Paul Celan
Ancora martella –
la parola – nel nudo
cratere di cenere.
Ancora incalza
l’invito dell’Ombra –
sprich auch du –
il coro dei morti
dalla terra bruciata.

Retablo di Cristina Campo
Da San Michele in Bosco
all’Aventino – infanzia
e addio. Icona
 dell’Altrove – fiaba
e mistero – e lievi mani
d’angelo bizantino.

Retablo di Greta Garbo
Come Piccarda – luce
nella luce svanita –
così Anna – Mata –
Greta – uscita
dallo specchio – Cristina
infinita – vi ritorna.

Marilia Bonincontro è nata e vive in Abruzzo, dove è stata insegnante. Ha pubblicato, raffinata esteta, numerosi testi di poesia, spesso pensati come libri-oggetto preziosi, realizzati con artisti, ed inoltre saggi e traduzioni. Le poesie qui riporate sono tratte da Retabli, Noubs, 2006.

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