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INTERVISTA A PAOLO DI PAOLO


Paolo Di Paolo è nato a Roma nel 1983. Nel 2003 è stato finalista al Campiello Giovani e, con i racconti Nuovi cieli, nuove carte(Empirìa 2004), al Premio Italo Calvino per l’inedito. Ha pubblicatolibri-intervista con gli scrittori italiani, tra i quali Ho sognato una stazione, con Dacia Maraini (Laterza 2005), Un piccolo grande Novecento, con Antonio Debenedetti (Manni 2005) e Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi (Laterza 2007). È autore di Raccontami la notte in cui sono nato (Perrone 2008) e di Questa lontananzacosì vicina (Perrone 2009). Ha curato La mia eredità sono io di Indro Montanelli (Bur Rizzoli 2008) e Viaggi e altri viaggi di Antonio Tabucchi (Feltrinelli 2010). Ha lavorato anche per il teatro – Il respiro leggero dell’Abruzzo (2001) interpretato fra gli altri da Franca Valeri; L’innocenza dei postini, messo in scena al Napoli Teatro Festival Italia 2010 – e per la televisione. Il suo ultimo romanzo è Dove eravate tutti (Feltrinelli 2011).

L’INTERVISTA

1) È possibile raccontare in una tesi di laurea quel che è stato e quel che ha rappresentato il primo decennio del duemila? Possiamo credere a quel che ci raccontano i testi scolastici sulla storia?

Si può mescolare la storia del privato, con quella pubblica, collettiva, tentando di cogliere il clima, l’atmosfera di un decennio? Sono queste le domande a tesi del romanzo pubblicato da Feltrinelli Dove eravate tutti di Paolo Di Paolo, enfant prodige della letteratura italiana odierna.

La letteratura italiana sembra avere i giorni contati, nel senso che dura una stagione, poi può cambiare tutto, perché magari ci saranno novità straordinarie che cambieranno il panorama che uno a fatica si era approssimativamente costruito; poi perché tutto si gioca sulla freschezza dei giovani, sui quali gli editori scommettono perché sono un investimento a lunga durata, ma i giovani devono essere prontamente sostituiti da altri giovani, in una folle corsa del tempo editoriale che cosuma l’idea stessa di giovinezza, idealizzandola in una posa letteraria, in un gesto snobistico e acrobatico verso cui il tempo perde sostanza: e allora a Di Paolo rivolgiamo la stessa domanda che abbiamo posto a Vincenzo Latronico: non ti pare che i romanzi dei giovani e dei meno giovani dell’ultimo decennio siano più performance che opere, che vogliano più creare notizia piuttosto che cercare di dare un apporto nuovo alla storia della tradizione letteraria? Insomma che questi romanzi siano autoreferenziali, privi di un dialogo con quelli che li hanno preceduti? Forse proprio per questo hai scritto un romanzo che invece cerca di catturare il senso del suo tempo, anche se poi giunge allo scacco della conoscenza?

 

Fare un discorso generico sarebbe sbagliato. Ma il tema della consapevolezza mi sta a cuore e in molti casi sì, mi pare che i giovani scrittori italiani – comprendo nel novero anche gli aspiranti, di cui mi capita di leggere i lavori – non brillino per consapevolezza. Hanno un rapporto un po’ svagato, quando non assente, con la tradizione. Magari hanno cercato modelli e riferimenti altrove, ma la sensazione è che la loro scrittura cominci con loro. Non nel senso però di una sfolgorante genialità, ma nell’impressione che alle loro spalle o sotto i piedi ci sia il vuoto. Quanto a me, l’archiviazione della memoria è un’ossessione e il dialogo con gli scrittori più avanti negli anni è stato essenziale nel mio percorso.

 

 

2) Un romanzo sull’imperscrutabile, sulla assurda passione di catturare il mistero che è nell’altro.. Una delle più belle pagine del libro: “Dove sta la verità su qualcuno? È il risultato delle interpretazioni altrui, così contraddittorie, approssimative, falsate da stati d’animo, umori, pregiudizi? (…) Ogni giorno ci troviamo a parlare di persone, come fossimo al corrente di tutto ciò che le riguarda. È la zona minima di quelli che chiamiamo i Cnosciuti. Si allarga lentamente, anno dopo anno, acquista nuovi membri, mentre perde quelli meno affiatati e qualificati. È qui che le nostre relazioni esistono, si complicano, si sfilacciano, invecchiano”.

 

Posso commentare solo citando i versi di una poesia tra quelle che più amo. Walt Whitman, “A uno sconosciuto”: “Sconosciuto che passi! Tu non sai con che desiderio ti guardo, / Devi essere colui che cercavo,  o colei che cercavo (mi arriva come un sogno), / Sicuramente ho vissuto con te in qualche luogo una vita di gioia, / Tutto ritorna, fluido, affettuoso, casto, maturo, mentre passiamo veloci uno vicino all’altro, / Sei cresciuto con me, con me sei stato ragazzo o ragazza, / Ho mangiato e dormito con te, il tuo corpo non è più solo tuo né ha lasciato il mio corpo solo mio, / Mi dai il piacere dei tuoi occhi, del tuo viso, della tua carne, passando, in cambio prendi la mia barba, il mio petto, le mie mani, / Non devo parlarti, devo pensare a te quando siedo in disparte o mi sveglio di notte, tutto solo / Devo aspettare, perché t’incontrerò di nuovo, non ho dubbi / Devo vedere come non perderti più”.

 

 

3) Un romanzo che è tutto attraversato dal sentimento del tempo, dalla nostalgia per quel che passa irrimediabilmente ma anche per quello che è accaduto e che non si è potuto vivere, il desiderio di ricostruire quegli eventi che si sono verificati senza la nostra partecipazione. Il clima del testo ci rivela che l’autore è soprattutto un poeta… Un’allegoria della fragilità del nostro tempo sbadato e eccessivo… La tua è quasi un’operazione genitoriale, cercare di essere accanto al proprio tempo per custodirlo, per vegliarlo come un figlio…  Fatta però da un figlio, “un figlio del proprio tempo”. Forse mai come oggi un giovane si sente così tanto figlio del proprio tempo…

 

Molte volte mi è stato chiesto come mai alla mia età io comunichi in ciò che scrivo questo sentimento di nostalgia. In effetti a volte me lo chiedo anche io. Ho un rapporto strano con il tempo passato, non riesco a liberarmene in fretta. E al di là delle attitudini personali, sì, mi pare che scrivere significhi comunque – quasi soprattutto – lasciar depositare la memoria, una o più memorie. Così, in Dove eravate tutti, che da molti è stato letto come un romanzo sul ventennio berlusconiano, il tentativo era quello di rispondere a una domanda: si può provare una forma, se non di nostalgia, di benevolenza per anni che ci sembrano brutti? Sì, si può: perché non scegliamo il tempo in cui vivere, deve andarci bene per forza, ed è quello comunque – il tempo in cui magari siamo cresciuti, ci siamo innamorati, abbiamo scoperto anche molte cose belle e importanti. “Quelli erano gli anni e noi siamo stati i loro ospiti”, mi verrebbe da dire citando Silvia Ballestra. Mi tornano in mente alcuni racconti di Il tempo invecchia in fretta di Antonio Tabucchi: in alcuni racconti bellissimi i personaggi si accorgono di avere nostalgia per una stagione orrenda (politicamente e civilmente orrenda) della propria vita (penso a “I morti a tavola” o a “Bucarest non è cambiata per niente”). Per concludere: mi è dispiaciuto che quasi vent’anni della mia vita fin qui (e ne ho ventotto) abbiano coinciso con l’epoca berlusconiana. Avrei preferito tutt’altro. Ma posso forse negare che, proprio nell’epoca berlusconiana, io sia stato bambino, adolescente, giovane? Ecco, volevo anche riscattare ciò che di bello e di decisivo e di insostituibile mi è accaduto in questo tempo.

 

 

4) Di Paolo è anche un profeta, come tutti i grandi scrittori. A p. 138 si legge: “L’Italia, per vent’anni, è stata una nave da crociera”, più avanti: “La nave da crociera era ormai un circo vuoto”.  Sapevi già che la nave da crociera Costa sarebbe affondata davanti all’isola del Giglio, enorme allegoria dell’Italia? E più avanti, dalle pag.211 inpoi, parli della neve a Roma, anticipo di quello che sta accadendo in questi giorni…

 

La neve a cui mi riferivo era quella del 2010, caduta a Roma, meno abbondante che in questo 2012. Evento raro, allarmante e insieme poetico. Quanto alla nave da crociera, si tratta sì di un’immagine metaforica dell’Italia degli ultimi vent’anni, ma certo non potevo immaginare il dramma del Giglio. Non credo tuttavia che una tragedia sia metafora di qualcosa.

 

 4) Fermare ad ogni costo il proprio tempo che sfugge così velocemente forse fa smarrire l’idea di classicità, l’idea a cui dovrebbe conformarsi un’opera di letteratura. Tu hai dei maestri? Senti la mancanza di maestri? Se tu potessi scegliere un maestro del passato, chi adotteresti, tentandolo di nuovo alla vita?

 

Con i “maestri” ho dialogato fin dagli esordi in alcuni libri-intervista. Li ho cercati perché mi incuriosiva capire come si diventa ciò che si è, e interrogare la loro esperienza. Tra gli scrittori del passato, non mi dispiacerebbe intervistare Virginia Woolf. Avrei molto da chiederle. Alcuni suoi libri – Mrs. Dalloway e Al faro su tutti – mi hanno dato durante la lettura la sensazione che non valesse la pena scrivere ancora. C’era già tutto lì. Poi per fortuna mi sono distratto.

 

 

5) I tuoi scrittori preferiti, i tuoi libri del 2011.

La trama del matrimonio di Jeffrey Eugenides mi ha catturato. Nemesi di Philip Roth; Oggi avrei preferito non incontrarmi di Herta Muller. Tra gli italiani, alcuni racconti di Baci scagliati altrove di Sandro Veronesi, e Lettera di dimissioni di Valeria Parrella, perché dà molto da riflettere.

 

6) Parlaci del tuo status di critico letterario.

 

Negli studi non sono stato molto originale: Lettere moderne. È forse per questo che poi mi è venuto spontaneo, naturale cercare occasioni per scrivere dei libri altrui. In effetti, se ci penso, parlare e scrivere dei libri altrui è la cosa che più mi appassiona. Indagarli, interrogarli: lo faccio come recensore, ma anche in molti incontri pubblici o nelle scuole, dove capita, spesso

 

 

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INTERVISTA INEDITA ALLA NON-FUNEREA BENEDETTA PALMIERI…


Federica D’Amato molesta BENEDETTA PALMIERI, giornalista e scrittrice, ormai seguitissima dal grande pubblico attraverso i suoi FUNERACCONTI, Feltrinelli 2011 (ospite lo scorso anno del Festival delle Letterature dell’Adriatico, Pescara).

C’è da dire che la signorina Palmieri è una persona così gentile e graziosa ché non solo ha resistito all’ormai famosa petulanza della D’Amato, ma ci ha praticamente onorati della sua presenza. Non è forse presenza, infatti, quella che scaturisce dalla partecipazione totale di una risposta ad una domanda? Per casa Noubs sì.

Speriamo che questa intervista vi faccia scoprire, se non la conoscete, una penna di valore, o che vi permetta di approfondire la lettura di un talento che ha da dare molto alla nostra letteratura.

Grazie Benedetta, di cuore.

“SCRIVERE PER RILEGGERSI E’ BELLEZZA”

intervista a Benedetta Palmieri

riproduzione riservata all’utilizzo esclusivo dell’autrice e della casa editrice

  1. Benedetta, i suoi Funeracconti (Feltrinelli, 2011) sono una collezione di intelligenza. Ritengo sia intelligente, infatti chi oggidì si confronti con il tabù certo non della morte, ma del suo più buio e complicato rovescio: la vita. Quale “rovescio” dell’enigmatica medaglia ha mosso la sua penna?

Innanzitutto voglio ringraziarla per la definizione lusinghiera: “collezione di intelligenza” non è poco. Per quanto riguarda la scelta del tema, però, non so se sia stata una questione di intelligenza; certamente lo è stata di istinto, o di inevitabilità. Credo che in me le due facce della medaglia siano una sola, che le mescola. Non sono mai riuscita a vivere senza che il pensiero del morire mi accompagnasse, e allo stesso modo non sono mai riuscita ad aver paura di morire senza interrogarmi sulla qualità della mia vita. Meglio: sulla sua identità; la qualità presuppone un giudizio che mi sembra troppo complesso dare, ma la sua identità è importante. È importante domandarci che storia desideriamo, che storia possiamo costruirci, e che posto vogliamo dare a ciò che ci mettiamo dentro.

Tra le altre cose, mi sono chiesta spesso se dovessi lanciarmi nella vita o prepararmi per lei – se anche un po’ di sane incoscienza e approssimazione fossero salutari, propedeutiche addirittura, al vivere; o se piuttosto dovessi aspettare di essere pronta – preparata, cresciuta, adatta – anche per il più piccolo dei passi (rischiando l’immobilismo). L’oscillare tra queste due posizioni e il tentativo di tenerne solo una non hanno potuto fare a meno di misurarsi costantemente con il parametro assoluto: la consapevolezza che a un certo momento (imprevedibile) della mia vita sarei morta. Questo coacervo di sentimenti emozioni e paure, di slanci impetuosi nel vivere e di frenate, si è trasformato nella voglia di domandarmi cosa pensassi anche attraverso la scrittura.

  1. Ho sempre associato la parola “partenopeo” alla filosofia, ovvero ai concetti di ironia e wit, direbbero i britannici. I suoi racconti, sì come le precedenti prove – penso a Un due Tre stella (Pironti 2009) – hanno confermato le mie associazioni, arricchendole di un valore aggiunto che credo sia caratteristico della sua scrittura: la levità. È in grado di circoscrivere una descrizione del suo dettato narrativo?

In verità no, non credo di esserne in grado. Però provo a individuarne uno auspicabile. E partirei dal fatto che ironia, wit, levità vorrei che a quel dettato appartenessero. Sono qualità che mi interessano. Forse, più di tutte tra le tre, la levità; che mi piacerebbe, però, chiaramente retta dalla sostanza. Insomma, non so se sia la formula più giusta, ma amo l’idea che i contenuti abbiano un peso senza che la loro forma sia necessariamente pesante – e per forma intendo sia lo stile sia l’animo con cui ci si dispone ad affrontarli.

Conoscendone, e vivendone quotidianamente, sfumature e contraddizioni (e avendola molto a cuore), faccio sempre fatica a inquadrare Napoli in caratteristiche fisse. Però è vero che ce ne sono di riconoscibili e ricorrenti; e tra queste una che mi piace molto (e che dunque vorrei mi appartenesse) è la capacità di sintesi. Una sintesi concettuale che per me trova la sua espressione perfetta nel dialetto napoletano. Anzi, mi sembrano così visceralmente legati, che a volte mi diverte immaginare che il dialetto non sia funzionale a rendere la sintesi, ma ne sia addirittura l’ispiratore.

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