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MARSULLO COME E MEGLIO DI GRILLO – IN CAMPO COME NELLA VITA (DI MASSIMO PAMIO)


In “Atletico Minaccia Football Club” Marco Marsullo si avvicina al mondo del calcio per estrarne l’ultima scintilla di epicità, che egli riesce a individuare e a restituirci laddove, nell’ambiente provinciale di un campionato di categoria, alle peripezie tragicomiche di una squadra di dilettanti affida il compito d’un riscatto simbolico, collettivo, e ad allenatore direttore sportivo titolari e riserve concede di disputare il torneo più esaltante della vita, che se non li risarcirà dalle sconfitte del quotidiano, li proietterà per una stagione in una dimensione eroico-leggendaria. Il libro, non immune dal realismo epico-magico di Arpino e di Bontempelli, per intensità poetica ci ricorda il folgorante esordio di Marco Lodoli (“I fannulloni”) e le pagine di Osvaldo Soriano, recupera al calcio un’aura di vicinanza alla gente comune, ridona a uno sport tanto amato quanto deprecabilmente rovinato da interessi economici, una semplicità e una sincerità inimmaginabili, dopo i tanti scandali – dal doping alle partite truccate all’immagine di calciatori e allenatori diventati inavvicinabili potenti esponenti dello star-system, distanti dalle povere comparse che ogni domenica continuano ad affollare gli stadi e a pagare un tributo eccessivo a uno sport che ha abbandonato le prerogative del gioco agonistico per trasformarsi in uno spettacolo.

In questo senso, Marsullo restituisce interesse per il calcio, così come è accaduto per la politica prima con Renzi e poi con Beppe Grillo i quali hanno risvegliato la speranza che negli anni stava scemando negli italiani. Credere in un sogno significa perfino migliorare eticamente:

-Ma te lo ricordi Sogliola chi era? Andava a caricare mignotte sulla Domitiana! E adesso, lo vedi? Tirato a lucido, cattivo, ha segnato settecentomila gol! E sai perché?- -Perché gli pago il parrucchiere della moglie?- – Porca puttana, Lucio! No! Perché ha un sogno. Perché ha un fottutissimo sogno. Sogliola è un bambino di un metro e novanta che vuole fare gol più degli altri attaccanti. E con lui, tutti gli altri. Sono bambini, sono felici. Ma non li vedi in allenamento? Sudano, corrono, scherzano. Hanno trovato la gioia-.

Ridare forza ai nostri sogni significa tornare alla speranza, alla gioia. E gli italiani grazie a Grillo e alle sue promesse, che poco ci importa se le manterrà, sono tornati a nutrire una speranza, sono tornati a credere in una politica migliore, più onesta, più pulita, più vicina alla gente, anche fisicamente. Il calcio e la politica si sono allontanati dalla gente. Marsullo e Grillo ci danno una speranza. Ci hanno fatto tornare la passione per il calcio e per la politica.

Ma Marsullo va addirittura oltre Grillo. La letteratura quando è grande supera perfino la politica. Marco Marsullo ci indica che al di là del calcio c’è qualcosa di altro:

-Il calcio può arrivare fino a un certo punto. Dopo ti accorgi che non si può vivere di solo pallone. Che divertimento c’è in una cosa che diventa l’unico appiglio della tua esistenza? Come farebbe a differenziarsi dal resto delle cose, se il resto delle cose cessasse d’esistere? Nella fattispecie, che mondo sarebbe senza il calcio? Ma che mondo sarebbe un mondo di solo calcio?-

Il giovane scrittore fa subire al suo protagonista una evoluzione psicologica, grazie al sostegno morale della giovanissima figlia, l’angelo del romanzo (in precedenza il protagonista, l’allenatore Vanni Cascione, aveva affermato: -Una cosa sola dura per sempre. Il calcio-).

Bisogna credere nella propria passione fino in fondo, se si vuole primeggiare e raggiungere il sogno della propria vita. Ma non dobbiamo dimenticare che il vero eroe è quello che non dimentica mai la propria condizione umana e solidale per il quale anche il proprio successo personale è nulla, rispetto alla vita e al prossimo. La vera battaglia è dunque quella che si combatte ogni giorno in favore della vita e dell’amore. E il calcio è solo una metafora -anche se splendida. della vita, come diceva il grande Nereo Rocco, il paròn: -In campo, come nella vita-.

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COSI’ IN CIELO COME IN TERRA – BRIAN GREENE E LA MIA TEORIA DELLE STRINGHE (di Massimo Pamio)


In un dialogo non impossibile, Brian Greene, docente alla Columbia Univerity di New York, uno dei più noti divulgatori al mondo delle nuove teorie cosmologiche, mi suggerisce l’idea di sovrapporre le mie personali riflessioni riguardanti l’identità dell’uomo a quelle più avanzate della ricerca scientifica: “Chissà che lei non trovi nell’uomo quello che noi cerchiamo nell’universo”, mi dice. “Forse solo uno psicanalista potrebbe”, controbatto. “Lo psicanalista isola i sintomi, lei deve trovare un’immagine forte, un’allegoria, che non sarà forse una soluzione, ma forse un piccolo contributo a far allontanare l’uomo dallo specchio delle sue brane”. Così ho tradotto un gioco di parole intraducibile dall’inglese all’italiano: con “brame-brane” ho inteso specificare il passaggio dal narcisismo al tatticismo che Greene auspicava nel colloquio immaginario.

Per aver sostenuto quotidianamente il peso di una incrollabile fede in se stesso, esercitata fino al termine della propria vicenda personale, ciascun uomo può essere considerato un eroe. L’aver creduto in sé sempre e in ogni circostanza, nei giorni, negli anni: nel tempo, questa è la vera dimensione tragica della modernità, questa è la porzione di sacro oggi concessa all’uomo. Nel nostro secolo l’uomo non nasce da una costola di Eva, ma dall’osso spolpato della sua fede, dal continuo praticare forme di autoconvinzione. Il credere lo preserva nella sua diversità e lo costituisce, lo esalta, lo rafforza, lo difende da tutte le disgrazie, da tutte le vicende gioiose o dolorose, che giammai potranno abbatterlo o sgretolarlo in mille pezzi. L’uomo deve sempre credere per poter essere oggi l’uomo che è già stato: egli è il risultato delle sue azioni, dei suoi movimenti, delle sue scelte, delle sue relazioni. Se si è ingannato, sono stati fondamentali per lui l’arte e la bravura con cui si è ingannato. Se ha avuto stima di se stesso, è stato basilare l’ingegno mediante cui è riuscito sempre a mantenere viva la sua convinzione, usando mezzi e modi a disposizione. L’autoinganno o la fede in se stesso sono diretti a conseguire lo stesso risultato, quello di condurre l’individuo verso una meta, verso un traguardo. Quando l’uomo raggiunge il traguardo, deve ricominciare da zero; inizia per lui un’altra vita, una sorta di reincarnazione. Si compie per lui il suo tempo: perché la meta è sempre legata al fattore temporale -non c’è una meta senza un prima e un poi, la meta è un passaggio. Raggiunta la meta, bisogna che egli indugi: per fermare il proprio tempo, per riflettere e annullare pian piano quello che è stato (tutto quel che ha inventato per raggiungere la meta è ormai alle spalle, superato, svuotato di ogni senso). Fare del proprio tempo il tempo del mondo, che è quello di “andare, vivere o restare e morire”, come afferma il protagonista di “Romeo and Juliet” di Shakespeare. Compiere ogni volta una scelta: per la vita e per se stesso,una scelta per la fede in se stesso e nella vita. “Il modello standard considera gli elettroni e i quark come (…) punto d’arrivo del processo di divisione della materia, la matrioska più piccola dentro la quale più nulla è contenuto. Secondo la teoria delle stringhe, elettroni e quark sono punti di dimensione zero: questa è solo un’approssimazione, perché a ben guardare sono piccoli filamenti di massa/enrgia in perenne oscillazione detti, appunto stringhe” (Greene, La trama del cosmo). L’istante in cui si ricompongono le diversità del mondo nell’individuo – in cui l’inganno o la fede in se stesso hanno finalmente conseguito la meta – costituiscono il più piccolo frammento di spaziotempo, in cui non c’è più nulla da conoscere. Nell’aprirsi di una nuova vita, di una nuova dimensione ci si rende conto che l’uomo non è libero, ma è sempre legato a qualche cosa d’altro. L’io è un legame, una stringa, che usa la propria estremità per annodarsi. La meta è il nodo. Un nodo che leghi un’altra stringa, un altro io in sé, come una cicatrice irrimarginabile Questa, la meta: la felicità, l’amore, il successo. Di nodo in nodo, la stringa si avvicina all’estremità di se stessa. L’ultimo nodo, la morte. L’ultimo nodo, per essere stretto, dovrà però sempre lasciare un pezzettino della stringa. La vita non si risolve mai, lascia sempre una meta non raggiuta, un problema non risolto, un altro io con cui si sarebbe dovuto stringere un nodo, la vita è sempre incompiuta. Per la stringa, conta chi su questa corda sarà riuscito a camminare, anche se solo in punta di piedi. Quel che conta per la stringa saranno stati la qualità e la quantità degli equilibristi che sono riusciti a trascorrervi sopra – a credere nella sua estensione, nella sua solidità, nella sua elasticità, per danzarvi o solo per compiervi un passo. Se anche una sola persona o un’idea di persona sarà stata su quella stringa, allora la stringa sarà stata quella giusta e l’uomo potrà affermare di averla tesa al punto giusto continuando fino alla fine a credere (o a ingannare) se stesso. I nodi che si creano sulla stringa liberano un’infinita potenza, modificano il mondo, unificano le forze che nel cosmo tendono verso lo Zero Assoluto, verso ciò che è Alfa e Omega.

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IL PREMIO DE LOLLIS VENERDI 26 OTTOBRE ALLE 18 A CASALINCONTRADA- ASSEGNATO A GIVONE, GHEZZI, DAMILANO, MUSINI, MELIZZI, CIOCCA


ECCO L ‘ANSA:

http://www.ansa.it/web/notizie/regioni/abruzzo/2012/10/20/Premi-Lollis-vincono-Ghezzi-Givone_7664118.html

E GLI ALTRI ARTICOLI STAMPA:

http://www.inabruzzo.com/?p=140488

http://www.fattitaliani.it/index.php?mact=News,cntnt01,detail,0&cntnt01articleid=8297&cntnt01returnid=102

 

http://www.inabruzzo.com/

http://www.24orenews.it/eventi/altro/abruzzo/8571-chieti-designati-i-vincitori-del-premio-internazionale-%E2%80%9Ccesare-de-lollis%E2%80%9D-%E2%80%93-x-edizione

http://www.fattitaliani.it/index.php?mact=News,cntnt01,detail,0&cntnt01articleid=8297&cntnt01returnid=102

http://www.agenziastampaitalia.it/index.php?option=com_content&view=article&id=10866:chieti-premio-internazionale-cesare-de-lollis-x-edizione-designati-i-vincitori&catid=40:cultura&Itemid=127

http://www.iammepress.it/index.php/italia/40739-designati-i-vincitori-del-premio-internazionale-cesare-de-lollis-x-edizione

http://www.chietiscalo.it/eventi/45-cultura/17695-designati-i-vincitori-del-premio-internazionale-cesare-de-lollis–x-edizione.html

http://www.giornaledimontesilvano.com/cultura/34-cultura/16082-designati-i-vincitori-del-premio-internazionale-cesare-de-lollis–x-edizione.html

http://www.ilgiornale24.it/page/rubrica/id/320/designati-i-vincitori-del-premio-internazionale-cesare-de-lollis-x-edizione.html

http://www.corrierepeligno.it/eventi/i-vincitori-della-x-edzione-del-premio-c-de-lollis

http://www.allnewsabruzzo.it/articolo.asp?id=10243

http://www.pagineabruzzo.it/notizie/news/Spettacolo+Abruzzo/55635/Designati_i_vincitori_del_premio_internazionale_cesare_de_lollis_x_edizione.html

http://www.inabruzzo.com/?p=140488

http://www.cityrumors.it/chieti/cultura-a-spettacolo/casalincontrada-premio-de-lollis-vincitori-52762.html#.UIMa08VFVk0

http://www.abruzzo.tv/news/resi-noti-i-vincitori-del-premio-di-letteratura-cesare-de-lollis-46200

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WALTER SITI MAGISTER, di Federica D’Amato


Brevi note di lettura di Federica D’Amato, sul grande scrittore Walter Siti, in questi giorni in libreria con il suo nuovo romanzo, Resistere non serve a niente, Rizzoli 2012.

Walter Siti magister

di Federica D’Amato

Nell’andare in libreria c’è da soffrire.

In quell’improbabile pellegrinaggio larvale delle nostre anime su facebook, twitter et alii, c’è anche da star peggio: chi ti molesta in libreria con romanzi privi d’ogni decenza escatologica, in rete pompa decadenza. Per non parlare di coloro che essendo ubiqui sui blog letterari, si considerano scrittori, e vai a vedere al massimo hanno partecipato a qualche antologia. O gli esordienti delle grandi case editrici che si improvvisano critici letterari sui quotidiani del casato? Con un bagaglio culturale che può vantare tutta la letteratura dagli anni ’90 sino ad oggi, imbastiscono faide contro il sistema che li nutre, consumandoli.

Dunque, il Male. O l’indifferenza assoluta?

La seconda. Lo fa intuire Walter Siti, non con Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012) – la cui lettura sospiro da giorni, timorosa ma spietata ché lì dentro vi sia un risposta fatale. No. Lo fa con uno scritto occasionale che prepara, soffre le lascive brutalità del contemporaneo: nelle risposte al Questionario Moraviano, proposto da Nuovi Argomenti, n°40, serie quinta del Settembre/Ottobre 2007, omaggio a Moravia ad un secolo dalla nascita.

Alla domanda se abbia senso oggi parlare di impegno di uno scrittore, Siti secca gli entusiasmi, affermando “non riesco a pensare alla letteratura se non come a una forma di impegno”. E’ impegnato lo scrittore, anche il più valoroso, che oggidì informa il regime di realtà della letteratura? No, col danno irreparabile che “il più valoroso” non scrive più, ha abdicato silenzioso per non perire, ha compreso che “resistere non serve a niente”. Perché? Ancora Siti “la letteratura ben pettinata, quella che porta scritto in fronte ‘letteratura’, quella che intrattiene e ci fa sentire fighi, è semplicemente prostituzione e non vale la pena di parlarne”. Mi sembra una ottima descrizione del fenomenico riportato ad incipit della presente lettura.

Proseguendo, nella vexata quaestio degli equilibri tra diritti privati e pubblici, Siti fulmineo: “intorno alla letteratura in quanto letteratura non si crea mai consenso. Chi esalta il libro di Saviano fino a farne un manifesto del PD, in realtà non parla del libro di Saviano ma della moda contenutistica che si è creata intorno ad esso”. In quest’aria pestifera e plastificata, dove respira quell’ “in quanto”? Se per ontogenesi è carsico il suo movimento, com’è possibile la scandalosa focalizzazione sul presente che attua? Soprattutto: in un’orgia di consenso plenario, nella prospettiva orizzontale e digitale dell’esperienza, può essere considerata democratizzante la funzione del “vero” scrittore? (considerate le premesse di inattualità).

E veniamo al rigor mortis dell’indifferente. Siti: “Mi pare interessante l’indifferenza culturale. In questo campo gli indifferenti sono, direi: 1) quelli che si credono intangibili (e intatti) dalla deprivazione di umanità che la tecnologia ha imposto a tutto il mondo occidentale; […] 3) quelli che si cullano nel beato possesso di un’eredità culturale ormai inefficace e minoritaria, ma che loro credono maggioritaria e vincente; […] 5) quelli che usano la satira per congratularsi con se stessi; 6) quelli che negano l’emergenza, o fingono di vederla ma hanno fiducia che il male si possa sconfiggere con gli strumenti della politica internazionale e dell’ingegneria giuslavoristica (applicata da altri) […]”. L’indifferenza, che è una scelta e non una stanchezza successiva al trauma1, fa più male del male, perché rende davvero inanimate pietra di paragone e pietra angolare. Rende privo di senso l’acume degli articulator, i “riformulatori” (pietra di paragone), ovvero di coloro che “hanno la funzione di mettere a fuoco ciò che più è significativo e, nel contempo, lo fanno rivivere sotto una veste nuova; rivelano un retroterra culturale che stabilisce quello che conta e che dà un senso a ciò che si fa”2, ed uccide con forza pesticida il nume dei “riconfiguratori” (la pietra angolare), coloro che “trasformano una cultura in modo così radicale che, per risultare comprensibili, non possono più basarsi su un linguaggio esistente e su pratiche condivise. Di conseguenza, spesso non vengono capiti dalla gente della loro stessa cultura […]”3.

Aggiungerei, alla lista di Siti, che indifferenti sono anche coloro che ignorano completamente una tradizione, nel nostro caso letteraria, e sulle sabbie mobili della letteratura “figa” stanno edificando un successo di vendite, ma anche un’opera di avvelenamento del lettore, di qualsiasi lettore. Vorrei chiedergli com’è possibile restare immobili, non resistere, restare a guardare tutte questi silfi che si fanno chiamare scrittori, in tale menzogna perpetrando un vero e proprio crimine contro “L’esperienza”. Questa corpo gelido…

Non vi è più alcuna differenza tra l’egocrazia politica e quella culturale: “[…] Se viene avanti un nuovo medioevo, io sono pronto”4.

Federica D’Amato

1ved. sul concetto di trauma, Mario Perniola e luigi Zoja.

2cit. p. 98, in Ogni cosa risplende, di H. Dreyfus e S. Dorrance Kelly, Einaudi, 2012

3Ibid., p. 98

4Resistere non serve a niente, Walter Siti, Rizzoli, 2012

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Il “Non-detto” di Mariangela Gualtieri


Il “Non-detto” di Mariangela Gualtieri, breve lettura di Federica D’Amato

“Se è il carattere tautologico del linguaggio a dannarci, allora la voce ci salva. La voce è zitta, prima, dopo emerge dalle acque del silenzio e vi cammina, sospesa, sul linguaggio incede senza lasciare traccia. Ci cura la voce, illude una presenza di carne, e invece è solo sbaglio della materia, svista del divino che a noi la donò per consolarci della notte con bestie affamate. Eppure la voce è fatto di nominazione, questo accorto miracolo di cellule e arie e calore che ha detto la storia dell’uomo, l’ha guidata passando. Voce che è nata per dire un solo nome, l’uno impronunciabile “mai chiamato”, linguaggio che nasci per amore e bestemmia, silenzio che rispondi all’evento.

fd”

 

Nome che stai al centro,

il tuo suono ciocca e s’imperla di voci

ma nessuna ti tiene, nessuna ti osa in

suono, in lettera e cifra. Nelle tue solitudini

di mai chiamato. Come tutto è assai strano.

A me sembra. Assai strano.

Ti piantòno, ti indago, mi avvicino in

millimetri. Ti ho nella voce

senza che esca in suono.

Mariangela Gualtieri, tratto da Nei Leoni e nei Lupi


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VINCENZO CONSOLO e gli SCRITTORI IN SERRA


“Pensò che ritrovata la calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato e sciolto il suo grumo di dolore”  (da Nottetempo casa per casa)

Se n’è andato con discrezione. Un grande scrittore, uno dei Maestri del Novecento. Abbiamo atteso un po’, prima di ripensare a lui e al suo “ignoto sorriso” di siciliano che si portava dietro secoli di civiltà magnogreca ma anche di sofferenze civili. Lo vogliamo ricordare rileggendo una parte della intervista che rilasciò alla rivista “Profili letterari” (anno IV, giugno 1994, n. 5, ed. Montefeltro) nel lontano 1994 che, a rileggerla, suona profetica, ammonimento rivolto all’oggi, se assegna allo scrittore un compito oggi a mio avviso quasi completamente disatteso, quello di vivere all’ombra della ricerca del senso della propria opera di scrittore, del proprio impegno sacro con la parola.

D. La sua odissea letteraria e umana l’ha portata a una presa di coscienza sempre più netta di quelli che dovrebbero essere nella società di oggi i compiti degli intellettuali. Quale ritiene siano questi compiti, di quali realtà dovrebbero occuparsi gli scrittori?

R. Sono due domande distinte. È difficile dire di cosa, in generale, dovrebbe occuparsi la letteratura, so che io non mi occupo di assoluti, di Dio, dell’Esistenza, mi occupo, invece, di relativi, di dimensioni private dell’uomo e della sua collocazione nella società e nella storia e faccio della storia una metafora. Io credo che, in primo luogo, l’intellettuale dovrebbe tentare di non fare mai il letterato di corte, dovrebbe rappresentare la voce del dissenso, denunciare sempre, in letteratura bisogna combattere contro il potere, che cerca di espropriarci della nostra memoria storica. La mia utopia sta nell’oppormi al potere. Dovremmo stare all’opposizione, criticare.

D. Criticare chi, e che cosa attraverso la scrittura?

R. C’è un saggio di Enzensberger dal titolo Letteratura come storiografia di cui viene detto che la storia può essere colta come realtà materiale solo dalla letteratura. La realtà di cui si dovrebbe occupare lo scrittore è soprattutto quella storica. Si pensi agli orrori del nostro secolo, dai campi di sterminio nazisti alla pulizia etnica in Yugoslavia. Non credo nell’innocenza in arte: bisogna sapere da dove si parte e dove si vuole andare. Oggi i mostri profetizzati da Kafka, da Joyce, da Pirandello sono i mostri della nostra storia. Si ha l’obbligo di affrontare questi mostri. Ecco, il compito dello scrittore secondo me è quello di memorare.

D. Cosa merita a suo avviso di essere memorato, di essere salvato dall’oblio tramite la letteratura?

R. Il patrimonio culturale va memorato, la nostra cultura storica, politica, letteraria, linguistica. Vede, Omero, in greco, significa ostaggio. Ostaggio della memoria,  della tradizione, del patrimonio culturale, religioso, etico e linguistico degli aedi. Ignorare tutto ciò significa rischiare l’imbarbarimento. Il rischio è reale e rappresentato anche dai media, che tendono a livellare, a massificare i prodotti culturali. C’è una frase di Arbasino: “Sapesse, signora, la mia vita è un romanzo”. È vero, ogni vita è un romanzo ed è vero che quando si scrive si mette in moto la memoria personale, ma questa non dovrebbe essere fine a se stessa. I “Proust di provincia” sono tanti e sono noiosissimi: in letteratura ogni vita dovrebbe avere un significato di ordine storico e metaforico. Anche autori come Primo Levi, Leonardo Sciascia e Elsa Moramte erano ostaggi della memoria.

D. Nel prologo a un libro di Gerchunoff, Borges scriveva che “triste e glaciale immortalità è quella che conferiscono le effemeridi, i dizionari e le statue: intima e calda è quella di coloro che perdurano nelle memorie”. Anche lei in parte ritiene che sia così, ma io noto anche un tono di rammarico: lei menziona autori non più in vita. Ritiene che oggi non vi siano autori ostaggi della memoria storica, delle tradizioni, del patrimonio culturale italiano?

R. Il fatto è che vi è stata come una sorta di frattura, come se la storia, e quando dico storia intendo la vita sociale, non interessasse più, ma importassero solo le proprie angoscie esistenziali perché il papino è stato cattivo e la mammina non ci ha dato abbastanza latte… Al di là dello scherzo, trovo che in letteratura vi è stata una riesumazione di vecchie formule estetiche, che sembravano essere state sepolte. (…) Sotto la pressione operata dall’ingigantirsi dell’industria culturale oggi si scrivono tantissimi romanzi che vengono consumati. (…)

Dove c’è il potere c’è sempre una corte. Il potere oggi è soprattutto dei media, dell’industria della comunicazione. (…) Oggi il linguaggio dei media sta invadendo anche il linguaggio letterario e da parte di alcuni scrittori c’è una sorta di competizione con quelli che sono i linguaggi della TV. (…) Molti scrittori oggi vengono allevati in serra, in corti accademiche, in salotti, in clan, sono assistiti fin dalla nascita(…). Dove va il romanzo? In parte sta degradando, nel senso che sta cambiando genere, compete con la TV, è scritto in quella lingua tecnologico-aziendale-massmediale di estrema fruizione, di intrattenimento.

D. Lei sostiene che l’unico modo per salvare la narrazione è dare dignità filologica alla parola e spostare la narrazione verso lo spazio della poesia. Cosa significa praticamente?

R. (…) Si deve verticalizzare sempre più il romanzo e caricarlo di significati, di sensi, come fa la poesia, per arrivare alla massima sintesi. Solo così penso che il romanzo possa avere efficacia. La lingua oggi è privata di identità, appiattita, livellata e quindi ha bisogno di essere nuovamente sacralizzata.

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