MARCIANI E IL DIALETTO FRENTANO (di Massimo Pamio)


Marcello Marciani, uno dei poeti più notevoli e versatili dei nostri giorni, un vero bricoleur della parola, si esprime con la stessa intensità sia in lingua sia che in vernacolo, scegliendo di volta in volta la lingua con cui comunicare. Nell’ultima pubblicazione, si affida al dialetto frentano.

La chiave interpretativa dell’opera ce la restituisce il titolo stesso, Revuçégne, tradotto come rovistamenti, declinazione sostantivale in dialetto di un verbo rivuscinare, rivuscicare. Sostantivale e non avverbiale, perché in dialetto abruzzese non esiste declinazione avverbiale, in verità la traduzione letterale di revuscigne sarebbe dovuta essere i rovistati, i rimestati, o la voce verbale rovisti, seconda persona singolare indicativo del verbo rivuscinà.

La parola revuçégne compare per 2 volte nel testo, in accezione positiva la prima, quando si riferisce all’attività collegata al ricordo memoriale del fratello, in senso negativo la seconda, quando si afferma che il mare è privo di revuscigne, privo di ricordi. Dall’uso improprio di questo vocabolo Marciani chiarisce che è la memoria il vero oggetto del rivuscinare, del rovistare, della ricerca. Se l’inquinamento sembra cancellare la possibilità, per il mare, di conservare dentro di sé la forza della vita, allora è vero che la memoria è simbolo della forza, della vitalità, anzi, la memoria stessa costituisce la forza della vita. Viene avvertita dallo scrittore come un tesoro, come un dono della vita, naturalità, ovvero la qualità di conservare la purezza vitale. L’atto memoriale, il rovistare, si slancia verso questo distillato vitale, verso quella purezza incontaminata che è il ricordo, atto a segnare e informare il percorso esistenziale e a conferirgli senso. Si vive come viandanti che cercano nella propria memoria il senso dell’esistenza, mediante la fissazione e l’impalcatura di una memoria propria, diversa da tutte le altre, ricca di una densità che non è solo personale ma anche determinata dalla condivisione di quella degli altri (la storia) in cui si è coinvolti nel bene come nel male (in questo senso la memoria può essere intesa in accezione positiva o negativa).

La memoria occupa un ruolo centrale della nostra società ma che oggi venga pericolosamente resa monca o distorta o sminuita nel suo valore, appare tema sconvolgente per il poeta. Marciani vuole metterci sull’avviso del rischio che si corre quando la memoria si perde o si delega a strumenti tecnologici. Perché accade questo? Perché l’umanità sembra voler smarrire la memoria? Probabilmente perché non è riuscita ad accettare la limitatezza del pianeta, circoscritto e circoscrivibile e non infinito, e che l’uomo gli appartiene, conseguentemente finito anche egli, essere terrestre il cui fare e il cui destino si sono rivelati essere strettamente connessi al pianeta, tanto da commettere lo stesso peccato dell’apostolo, rinnegando, come Pietro fece con Gesù, la madre terra, tradendola, dimenticandola, sicario complice di un’uccisione. Si è dimenticato il rispetto del pianeta. Dimenticare è un atto di violenza. Il passaggio dell’uomo sulla terra, invasivo e devastante, ha influito sul cambiamento climatico. È in grave pericolo la sorte stessa della specie umana, che stranamente non reagisce all’inquinamento di acque, terre e aria così come dovrebbe. Ci si chiede il motivo per cui non si intervenga subito e poderosamente per scongiurare questo pericolo, e invece… Tanto che si comincia a sospettare da più parti, che questo mancato intervento sia voluto da un ristretto manipolo di esseri che hanno deciso la fine della specie. Si accreditano sempre più ipotesi ritenute complottiste fino a pochi decenni fa, avvertite come folli idee, oggi invece avvalorate da studiosi e da accademici, secondo cui tra gli uomini si celerebbe un’altra specie proveniente da altri pianeti, gli Elohim, che determinerebbero le vicende dei loro sottoposti, gli uomini.

 

I poeti dialettali, in genere lirici o elegiaci, usano il vernacolo come l’innamorato usa l’amore. Per Marciani invece il dialetto è un grimaldello che forza, una trappola che impanica l’inconscio per stanarlo o per liberarlo dal guinzaglio per sorprenderlo e attizzarlo a pronunciarsi, a emergere. Per gli altri poeti non c’è possibilità di gioco, per Marciani il gioco è tutto, il mettersi in gioco è la realtà. In Marciani il dialetto è strumento per restituire una coscienza nuda, spogliata, è una spiaggia per nudisti del vero, per lo svelamento del sesso materiato nel reale, ordito dall’inconscio dal principio di realtà del desiderio a cui non si oppongono più tabù, sviamenti, falsi indizi, né remore, né scusanti. Qui si svela il piano della metamorfosi e dell’iniziato, qui si dice il testo, il dialetto diviene concreta vita e sostanza dell’io svergognato e derubato del falso pudore, pronto a raccontarsi. Il dialetto aiuta a registrare il vero senza parafrasi, a riconoscere la macchina del desiderio che comanda gli uomini come piccoli schiavi di un moto che non si traduce mai in libertà, in liberazione. Eppure non è l’osceno che Marciani rappresenta, anzi, il suo è un atto estremo di pudore, quello della verità, verità infantilmente e infinitamente desiderante che è il vivo centro di ogni coscienza. L’io è il motore di un centro che non fa altro che desiderare e specchiarsi nel suo desiderio, e cercare che gli altri lo soddisfino.

Il desiderio è una macchina esasperante, che sottopone l’essere umano a una tensione tale da provocargli un conflitto interiore tra mente e sensi e un conflitto esterno con gli altri: entrambi questi conflitti si riverberano sul corpo fisico e su quello sociale. Non c’è un appagamento un equilibrio delle componenti, si assiste a frustrazioni, ossessioni, egoismi, violenze, mutilazioni, esasperazioni d’ogni sorta del proprio mondo e dell’io come del tessuto sociale, in direzione sadica, masochistica, sublimante. L’uomo non cessa mai di desiderare, di generare una spinta che lo rende animale, cioè animato. Se Marciani rovista nella memoria e nella memoria della lingua, il bambino rovista nel baule dei giocattoli, la donna nella borsetta, il barbone nella spazzatura, il consulente nelle fatture, l’avvocato nelle sentenze, e via di questo passo. Il mondo è tutto “nu revucinà”, un rovistare un cercare tra gli oggetti interni dei ricordi o esterni, negli oggetti, quel che lo lega al suo mondo desiderante. Egli deve adempiere a questo invito ogni momento, deve tendere perciò verso un obiettivo che ha molto della connotazione della sopravvivenza. La vita è un sistema che si impone all’uomo, determinandone l’agire. L’uomo è il fantasma, il fantoccio del proprio agire.

Nella poesia $t’óje ‘ngangalite si descrive un uomo bloccato come da un incantesimo, da una superstizione, da una fattura, da un voodoo. La poesia di Marciani asseconda e svela denudandolo il comportamento dell’uomo, il prorompere del desiderante che lo costituisce.

L’innamoramento è al centro di ogni azione, porta all’esasperazione chi lo vive, forse perché l’uomo è l’inappagabile, l’essere che non viene mai soddisfatto, perché il desiderio rinasce ogni volta più forte e ossessivo di prima, e perciò l’uomo ha bisogno di praticare riti, di osservare superstizioni, che se lo vincono possono bloccarlo o ghiacciarlo. La lingua di Marciani asseconda il prorompente vitalismo dell’uomo e il conflitto che lo costituisce.

Lo scrittore chiede alla lingua un prodigio, una magia, affinché riesca, nella ripetizione anaforica, con il ripeteresi della cadenza ritmica, il miracolo di liberare il bambino, e cioè il celato nell’intimo, l’onnipotente inconscio, dall’incantamento, dal fuoco della passione che lo arde, dalla forza desiderante che lo anima. È anche un’invocazione proemiale, che ogni poeta rivolge al dio dell’ispirazione, affinché lo guidi.

L’amore che descrive Marciani a volte sembra quello infantile, giocoso, talaltra quello adolescenziale, fatto di scaramucce, oppure quello adulto, che spasima, che strilla in testa e balla agli occhi, è innamoramento, soprattutto.

E l’amata che cos’è?

La poesia di Mariani coniuga la lingua popolare e materna, la voce dell’infanzia con la costruzione logica e creativa dell’autore maturo, capace di dominare la materia in modo perfetto, a suo piacere, per cui la tecnica e l’invenzione intervengono sul dialetto modificandone il tessuto e soprattutto rivitizzandolo, dandogli una seconda opportunità di vita. È il dialetto la voce innamorata, che Marciani innamora? La parola innamorata non è la parola sublime che fu propugnata da poeti a mio avviso poco ispirati e fiacchi, da Milo De Angelis a Carifi, la parola innamorata invece è proprio l’operazione che compie Marciani, è questo ridare vita a una lingua morta, sepolta nel proprio ricordo, e grazie a questa ricognizione archeologica, cercare di ridestare e di salvare la propria memoria, innamorandosi del tempo passato.

Accade così che Marciani scrive versi nei quali il riuso del dialetto è colto, letterario, pur nel rispetto delle sue particolarità sintattiche. Alla mia domanda perché nel secondo verso della lirica ‘Nsì non si legge come ci si aspetterebbe sì mocceche a cchiu dinte bensì si moccieche a cchiu vinte,  (sei morso a più denti e invece sei morso a più venti) Marciani risponde: “Non dovevi aspettarti i denti al posto dei venti, perché i denti possono avere un nesso logico col morso, mentre i venti sono del tutto inaspettati, irrazionali e folli come la passione amorosa, che qui è un morso dato ai venti, quindi al vuoto, all’assenza dell’oggetto d’amore”.

Uno dei testi più notevoli dell’intera poesia marcianea è la poesia Emme.

Che cosa sia la M di Emma, è porsi la domanda, per l’autore, di che cosa sia la poesia rispetto alla lingua, o la lingua rispetto alle cose, o le cose rispetto al mondo e il mondo rispetto alle cose.

Quando il poeta scrive un capolavoro, ed è il caso di Emma di Marciani, la complessità del testo diviene irriducibile rispetto all’interpretazione, alla lettura che se ne può dare. Insomma, un capolavoro è una vera e propria sorgente a cui si può attingere per sempre, che rinfresca ogni volta e ogni volta offre sensazioni diverse e nuove.

Innanzitutto il titolo, che in dialetto suona Emme, come la consonante, la consonante per eccellenza, la prima che forse in ogni lingua del mondo l’infante balbetta, e che si identifica con la lingua stessa. È donna, è Emma, la lingua e la consonante sono declinate al femminile, rivestono un aspetto beneficante e materno. Ma emme è anche la prima lettera di mondo. Perché faccio questa osservazione? Perché viene fatto un elenco di cosa è Emma, e l’elenco mi pare appartenere più al mondo che a una donna, a meno che non si voglia far coincidere la donna con il mondo, operazione che probabilmente Marciani elabora coscientemente; il testo costituisce un riferimento a temi e atmosfere proprie del canto dei trovatori, dei fedeli d’amore, poi imitati dagli stilnovisti. Se la donna è l’oggetto della poesia e dell’amore, che cos’è la donna, estendendone la simbologia, se non il mondo, la terra? Marciani fa propria l’antica tradizione poetica e la porta alle estreme conseguenze, compiendo un percorso di ricerca poetica millenario; in questo senso Marciani à l’ultimo dei trovatori provenzali di cui ricelebra e svela le intenzioni.  Con la sua ballata “Emme” Marciani si pone all’interno del solco della tradizione poetica europea con autorità e con prestigio. Questa poesia è degna di comparire nelle antologie scolastiche per mostrare come la letteratura non possa svincolarsi dalla tradizione, se vuole raggiungere risultati eccellenti. La letteratura non è invenzione personale libera da ogni laccio, è un confronto costante con gli altri scrittori, e soprattutto con quelli del passato, con i classici; letteratura è anche erudizione colta che studia e conosce come gli antichi abbiano elaborato il mondo dei sentimenti e delle relazioni tra gli individui, la letteratura è storia della letteratura, riguarda il come i letterati abbiano espresso la loro ricchezza e come questo patrimonio rappresenti un tesoro per tutti coloro che vogliano intraprendere la missione dello scrittore.

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