PREMIO POESIA D’AMORE CITTA’ DI SPOLTORE MARCO TORNAR


CONCORSO 

POESIA D’AMORE “MARCO TORNAR”  CITTA’ DI SPOLTORE

PRIMA EDIZIONE ANNO 2024

L’Associazione Culturale AbruzziAMOci odv e IN Service srls  bandiscono, organizzano e promuovono, con il patrocinio del Comune di Spoltore e del Museo della Lettera d’Amore, la prima edizione del Concorso “Poesia d’Amore”©, Città di Spoltore dedicato alla memoria di Marco Tornar. La cerimonia di premiazione si terrà a Spoltore (Pescara) venerdì 6 settembre 2024 alle 18 e 30, nell’ambito di SpoltorAmore

REGOLAMENTO 

Art. 1 Si partecipa stilando in qualsiasi lingua (se straniera o in dialetto, si deve accludere la traduzione in lingua italiana) una sola poesia d’amore, inedita, della lunghezza massima di 40 versi, in 5 copie ben leggibili con cognome e nome del partecipante in alto a destra sulla prima pagina. Vanno aggiunte le dichiarazioni e le notizie richieste all’art. 2 in un solo foglio a parte. L’invio va fatto preferibilmente con posta ordinaria o prioritaria, ma non raccomandata. Contestualmente si dovrà inviare il testo della lettera (una copia) anche per posta elettronica in un’unica e mail allegando il file formato word che riporti la poesia – da spedire all’indirizzo di posta elettronica: maxpamio@yahoo.it, nominando il file con il cognome e il nome del candidato.

Art. 2 Non è dovuta alcuna tassa di iscrizione o partecipazione. Bisogna accludere: un foglio (si veda il fac-simile allegato) contenente: a) le generalità del partecipante (nome, cognome, indirizzo, età, numero di telefono, curriculum, e-mail), b) dichiarazione di autenticità del testo, c) autorizzazione alla pubblicazione gratuita della poesia e all’archiviazione digitale nel Museo della Lettera d’Amore, che ne acquisisce i diritti di pubblicazione e di diffusione; d) dichiarazione di adesione a tutte le norme del concorso. 

Possono partecipare anche i minori, studenti delle scuole di ogni ordine e grado, nel rispetto delle norme del bando. Per i minorenni l’autorizzazione a partecipare dovrà essere firmata da un genitore o da chi esercita la patria potestà.

Art. 3 Il termine ultimo per l’invio dell’elaborato, da effettuarsi al seguente indirizzo: Concorso Poesia d’Amore – Città di Spoltore c/o Associazione Culturale AbruzziAMOci, Via Ovidio n. 25, 66100 Chieti, è fissato al 30 giugno 2024 (farà fede il timbro postale di partenza). La giuria, il cui verdetto è insindacabile, è composta da: Nicoletta Di Gregorio (Presidente), Annamaria Giancarli, Enrico Guerra, Daniela Quieti, Stevka Smitran. 

Art. 4 Saranno assegnati i seguenti premi: Euro 250,00 al primo classificato, Euro 100,00 al secondo, Euro 100,00 al terzo; altri premi ai segnalati.       

Art. 5 Solo i vincitori e i segnalati saranno avvisati tempestivamente. I risultati verranno resi pubblicamente noti tramite la stampa e i siti internet: www.noubs.it e www.museoletteradamore.it.

Gli elaborati non saranno restituiti. La partecipazione al premio comporta l’accettazione di tutte le norme del presente regolamento. È tutelata la legge sulla privacy. L’Organizzazione non risponde della mancata ricezione dei testi. Le lettere in formato elettronico entreranno a far parte dell’archivio del Museo della Lettera d’Amore.      

Info: tf. 3279960722 oppure 3314075401.

Art. 6 Per evitare spiacevoli sorprese, si specifica che i candidati che non rispetteranno le norme nel bando saranno esclusi, ad esempio quelli che non effettuaranno l’invio per posta delle 5 copie e per e mail del testo entro i termini stabiliti (art. 1 e 2).

FAC-SIMILE SCHEDA DI PARTECIPAZIONE

  1. Generalità del partecipante

Il/la sottoscritto/a ………………………………………………………………………………………………………………………

nato/a a …..…………………………………………………..….  il………………………… residente a …………………………

……………………………………………………. in via/piazza…………………………………………………………… n°…………

telefono………………………cellulare………………………………………email…………………………………………………..

dichiara sotto la propria responsabilità, ai sensi della normativa vigente, che 

  • il proprio testo è originale ed autentico e non lede in alcun modo diritti di terzi, in ossequio alle disposizioni internazionali, comunitarie e legislative di cui alla legge 633/1941, in materia di diritti d’autore e successive disposizioni normative, né costituisce violazione di norme penali; 
  • autorizza la pubblicazione gratuita del proprio testo integralmente e/o in parte; 
  • autorizza l’inserimento del proprio testo nell’archivio digitale del MLA/Museo della Lettera d’Amore e la pubblicazione e diffusione dello stesso testo a titolo gratuito e senza limiti di tempo, anche ai sensi degli art. 10 e 320 C.C. e degli art. 96 e 97 legge 22.4.41 n. 633; 
  • accetta tutte le norme del Concorso; 
  • allega alla presente un breve curriculum (professione ed eventuali pubblicazioni);
  • in caso di vittoria o segnalazione, si impegna ad avvisare l’Organizzazione circa la propria presenza;
  • per i minorenni: autorizzazione di un genitore o di chi esercita la patria potestà

……………………………………………………………………………………………………………………

  1. data e firma

       ……………………………………                                                         …………………………………….

La presente scheda, in formato cartaceo, allegata a 5 copie cartacee della poesia, va inviata:

a:         Premio Poesia d’Amore Città di Spoltore c/o Associazione AbruzziAMOci

via Ovidio, 25  – 66100 CHIETI  (non va inviata per e mail)

Curriculum:

Comune di Spoltore

LA DEMOCRAZIA DEL TU (di Rita Gambescia)


Cominciò in sordina, alle casse dei supermercati, ma si diffuse velocemente per strada, nei bar e in ogni altro luogo pubblico, o quasi.

Le prime a farne più penosamente le spese furono le teste bianche, apostrofate con quella baldanza aggressiva che hanno spesso i giovani commessi, perlopiù precari e malpagati e quindi più in diritto di dettare almeno qualche legge nei rapporti.  Un’ondata di vitalismo contro povere ossa anchilosate e fragile dignità.

Ma il fenomeno non risparmiò nessuno. L’imperativo era uguale per tutti: diamoci subito del tu. Il lei? Roba vecchia, mandata in soffitta a vantaggio della giovanilistica e simpatica seconda persona singolare che elimina barriere e distanze, salta i preliminari, ci rende tutti uguali.

Ed era inutile insistere rispondendo al tu con il lei nella speranza di vederselo tornare indietro. Il tu aveva affermato la sua dittatura camuffata da democrazia. Eccola finalmente svelata la società dei tutti uguali, la società del livellamento e dell’equivalenza dove ogni cosa è pari all’altra, dove tutto si confonde e amalgama dentro un orizzonte piatto e nebbioso: la notizia di gossip che equivale ad una strage; la guerra in medio-oriente che si alterna, quasi senza soluzione di continuità, al problema dei rincari della spesa. Basta visitare qualsiasi giornale on line per rendersi conto di questa mostruosa mescolanza, o ascoltare la voce di alcuni speaker alla televisione che nel trasmettere i servizi non riescono a modulare la voce nemmeno un po’, quando decenza richiederebbe un trapasso di toni.

Il tu cementa le masse ed esprime anche – perché no? – un po’ di solidarietà, quella che s’instaura fra poveri dal momento che le classi sociali si sono tutte smagrite. La ricchezza è altrove, è in poche mani ed è irraggiungibile. Che senso ha stabilire ancora gerarchie dal momento che la stragrande maggioranza degli uomini condivide la stessa condizione? Chi sei tu per esigere questo pomposo pronome?

Ma il lei era molto di più di una spartiacque fra poveri e agiati. Poteva sì sottolineare le differenze sociali, ma serviva anche ad altro. Era l’approccio gentile e cauto ad una nuova conoscenza, era un avvicinarsi lentamente alla scoperta dell’interlocutore finché le distanze non si accorciavano e non si era pronti per il tu. La relazione costruita a piccoli passi presupponeva il rispetto per l’esistenza dell’altro, esistenza ancora misteriosa e piena d’incognite da svelare a poco a poco se c’era il desiderio che questo disvelamento avvenisse. In caso contrario, il lei era un utile strumento per mantenere distanza ed estraneità, mantenere i rapporti su un piano formale e così difendersi da ingerenze indesiderate e da una troppo facile familiarità, foriera talvolta d’inganni.  

 Il facile tu è l’opposto di tutto questo: è il misconoscimento dell’altro, la sua mancata identificazione ed anche, sostanzialmente, l’indifferenza per la sua persona. E’ il pronome senza il nome.

 Il lei va restringendosi a cerchie sempre più ristrette: anziani commercianti, professionisti, anziani che talvolta – lo si sente ancora – si scambiano rispettosamente l’antico voi, così tenero e gentile sulle bocche dei vecchi.

Ma il tu ha il suo contraltare. E’ la prima persona singolare, Io. Centrati su se stessi, gli inseminatori del tu affermano ad ogni istante la propria esistenza affogando quella dell’altro dentro una folla anonima e indifferenziata quale d’altra parte, tutti insieme e inopinatamente, siamo diventati. Vestiamo gli stessi vestiti, sogniamo gli stessi sogni, azzeriamo le differenze generazionali imitando i giovani. 

Ma ad operare questo livellamento in maniera prepotente è stato il principe degli strumenti di comunicazione, il computer, la cui immediatezza nella comunicazione ha affermato perentoriamente l’uso del tu. Nelle community non si può perdere tempo con i preamboli e gli arzigogoli, comprese le frasi lunghe e complesse piene di quei congiuntivi che l’uso del lei impone. E così, insieme al tu, si è impoverita la nostra lingua, così ben strutturata, dalle frasi elaborate che impongono riflessione ed esercizio di chiarezza.

Ma torniamo al lei, a queste tre lettere così musicali contrapposte alla durezza del tu. Possiamo illuderci che potranno salvarci dalla crudezza e crudeltà dei tempi che stiamo vivendo? Ma no di certo, non ci metteranno al riparo da niente ma potrebbero farci tornare un po’ più gentili, più inclini verso quello straniero (sempre più straniero) che è il nostro prossimo dandogli simbolicamente il dono dell’ospitalità, della vera ospitalità che attraversa prima l’anticamera per poi giungere, magari, nel cuore della casa dove, ad attenderlo, c’è il tu. Basta riprovarci.

ALICE NEL PAESE DELLE METAMORFOSI


ALICE NEL PAESE DELLE METAMORFOSI

Riflessioni critiche sull’arte di Alice Padovani ©

di Massimo Pamio

L’estate scorsa ho affrontato un viaggio nel modenese, per incontrare alcuni tra i più validi rappresentanti delle centinaia di artisti che popolano la provincia emiliana, caratterizzata come il geosito artisticamente più denso e importante di tutto il Paese.

A Modena, sono stato a trovare Alice Padovani. 

Il suo studio-laboratorio, modellato secondo le forme di un’ampia galleria, presenta volte molto alte, l’assito grigio. La luce vi trascorre in occasionali riverberi provenienti dalle finestre. Le quinte bianche e nere e l’alto zoccolo grigio sono assicurati da una serie di scaffali, di tavoli e di tavolini, su cui poggiano opere dai colori cupi, alcune protette da cupole in vetro. La prima impressione è quella di trovarsi nella fucina di Vulcano, per un conglomerato di utensili, di reperti fossili e di scheletri e di residui animali, minerali e vegetali che vi insistono, dei quali si potrebbe ipotizzare che la disordinata disposizione sia stata causata da un disastro climatico o biologico, oppure architettata da una superiore volontà archivistica e tassonomica. Quelle testimonianze sono la vita nel suo trascorrere e il metamorfosare d’ogni vivente in altro da sé per giungere nel rifugio o caverna, nel museo (nei “Cocoons”, stanze della metamorfosi) dove le molte vite si arenano come su di una spiaggia, quali onde evocate dalla tempesta in cui coinvolte, travolte, sommerse, ora sono esposte come impronte rimaste sulle superfici più diverse. 

È un brusio visivo che invade, di cui significativamente si è bersagliati, colpiti, centrati.

Si ritiene naturale incontrarvi Proserpina, una divinità ctonia che preordina e informa a sé tutto questo movimento oscillante tra vivente e non-vivente, tra organico e inorganico.

Quel che ho compreso nel dialogare con Persefone, pardon, con Alice, è che l’arte sia una forma di esperienza. Non si tratta di fruire  (come si dice oggi, con un termine consumistico) dell’opera, di vedere e di sentire l’opera, bensì di viverla, di essere in dialogo acceso con essa, di trascorrere un incontro che offre e prende vita, che informa, deforma, non solo comunica ed esprime, ma vive e influisce, contagia, infebbra, atterrisce, angoscia, fa perdere o guadagnare qualcosa, forse una via per la comprensione, o forse per la scoperta, sicuramente per una visione più ampia e consapevole: che non siano opere fisse, fini a se stesse, quanto piuttosto opere in moto, occasioni per rivedere e riconcepire la propria vita, per dare e ricevere vita. Un’operazione ambiziosa, quella di Alice, che riprende ed elabora la professione paterna dell’entomologo, e trasforma lo studio scientifico-naturalistico in atto di misura dell’esistente, in partecipazione attiva, in esperienza. Alla semplice mostrazione di una casa, quella paterna, da lei concepita come unawunderkammer, Alice sovrappone l’attualità di quel che si crea in altra lingua. 

L’assemblaggio di insetti, di cose che si potrebbe definire spazzatura. Il lavoro artificante di Alice costituisce un caos ordinato deliberatamente mirato al mantenimento dell’esistente e al contenimento dell’esistente, e cioè a preservare in vitro, a conservare la testimonianza fossile traducendola in memoria, quali risposte alla dispersione delle cose e della vita stessa. 

D’altronde Alice è stata pianista, attrice ed è pervenuta all’arte volendo abbracciare tutte le forme estetiche in un vortice in cui far confluire spettacolo, parola, musica, scena, corpi. Di questo luogo in cui tutto fluisce, lei è severa torre di controllo, ma anche fonte d’una creatività esplosiva. L’amore per insetti, conchiglie e fossili riferisce di un vissuto che non si esaurisce nell’apprezzamento, nel piacere estetico; Alice opera anche violentemente, spillando, inchiodando, nel tentativo vano di trattenere per sempre, di non far scappare gli insetti e la vita, per dimostrare come la vita si immoli per creare altra vita e per trasformarsi, per rilasciare passaggi e rifugi e procedimenti verso altre esistenze, verso altre organicità o inorganicità o disorganicità.

Alice Padovani dipinge quadri scuri, il nero, ella stessa argomenta, è la terra: per vedere la vita, bisogna scavare sotto la superficie. O anche per vedere bene occorre spostarsi di fronte all’opera d’arte, cogliere di taglio l’illuminazione, compiendo come una danza attorno al quadro, per riuscire a sorprendere le larve, le crisalidi che sono insite nel nero. Non ci sono solo la morte, la paura della sparizione, l’oblio. Le masse di insetti incrostate su un abito indicano un ritorno alla terra, attestano l’esigenza di riconoscere l’animalità, la terrestrità che competono a ciascun essere umano.  

Le “Ombre” (serie di opere) sono anche l’impronta che le cose gettano sull’inconscio. 

L’inconscio è, in fondo, qualcosa di concreto, e le cose vi corrispondono a livello concreto, perché fanno male, provocano felicità, il mal di pancia, una ferita, un sorriso. L’inconscio risponde in modo concreto, l’artista è vocato a dipingere che cosa compie l’inconscio nelle nostre viscere. La Padovani lo realizza attraverso l’impronta di gorgonie e cactus. L’inconscio è un’ombra universale che determina quel che siamo e come rispondiamo alla vita rispetto a quello che ci succede.

Proseguendo nella visita alla galleria-laboratorio, ecco la serie delle porte e delle finestre, che sono aperture sull’inconscio: ognuna ha il proprio doppio. Alcune recano farfalle: rappresentano l’Es, altre sigilli: è il Super-Io che ci intrappola. 

Proseguendo, ecco la serie degli Innesti: ossa e scheletri di animali combinati in modo tale da generare nuovi animali fantastici.

Siamo fatti di opposti, non siamo monolitici, ma cattivi e buoni nello stesso momento.

L’artista modenese si esibisce anche come artista d’azione. In una performazione, si veste di ricci e di spine per mostrare una caratteristica fisica o un comportamento (deimatico) che alcuni animali posseggono o esibiscono (ricci, vespe) e che usano come difesa o per deterrente nei confronti dei predatori, così come donne e uomini si comportano a volte in modo aggressivo per evitare di lasciarsi ferire. Alla fine, l’artista si toglie la pelle e decide di essere vulnerabile. 

Un’altra serie di opere mostra il corpo vecchio di cui si sono liberate nella muta. Le cicale non lasciano qualcosa di loro anche se continuano a vivere altrove? Ed è questa vita non più vita che la Padovani considera: “Ciascuno è fatto del proprio passato che vuole rinnegare ma nel cambiamento si deve portare quello che ha addosso e così è anche più prezioso, si porta addosso quel che è stato, il cambiamento è giusto ma dimenticare quel che si è stati non è giusto”, o forse non è possibile. È dunque collegandosi con il mondo e con il processo che la natura opera, a svelare l’aspetto psichico profondo dell’essere umano. Non è un caso se l’uomo è sempre più superficiale, il motivo è dovuto proprio al venir meno del dialogo con la natura. L’artista persegue invece con rigore questa relazione, in specie nella serie dei “Cocoons” (“Bozzoli”, o “stanze della metamorfosi”) in cui la Padovani fa divenire artistici e luoghi “parlanti” i piccoli rifugi in cui le larve vanno a riposare per metamorfosare: le larve si creano una casa di terra e di saliva ove si chiudono per sei mesi. In quegli spazi angusti avviene uno dei processi più misteriosi e incredibili della vita naturale, la metamorfosi, che non è una evoluzione, ma una distruzione completa e una ricostruzione totale, ex novo.  Quando la larva è pronta, la crisalide si schiude e i bozzoli vengono spaccati e diventano vasi meravigliosi. I luoghi dove avviene questo processo costituiscono queste opere della Padovani, a volte rivestite da una foglia d’oro per sacralizzare il fenomeno.   

Un lavoro filosofico e antropologico, quello della Padovani, che si mostra nelle forme dell’arte, così come un codice miniato esibisce tra le pagine illustrazioni: attraversamenti e metamorfosi di generi diversi: non si tratta di contaminazioni tra arti diverse, quanto piuttosto di veri e propri innesti, di creazioni di nuovi oggetti parlanti, di parole invisibili che epifanicamente esibiscono il loro corpo, verbigenerazioni, organicanti logoi d’un mondo trasmutato, transiderante.

STEFANO M. SIMONE – AMARYLLIS


Una poesia con risonanze virgiliane e classiche, quella di Stefano M. Simone, che commuove per la semplicità nativa dei sentimenti, per la delicatezza dei toni, per un ritmo interno ordinato e composto che si fonde mirabilmente nel dettato elegiaco. 

Lentamente,

la delicata Amaryllis si allontana

dalle innamorate mie pupille

come una stella

che distaccandosi dal cielo

cade

scavando immensi crateri

di mancanze infinite

Tardius,

delicata Amaryllis                             

amica mea discipulis meis

sicut stella

quod de caelo

cadere

fodiendo ingens crateres

deficiente infinito

(traduzione in latino maccheronico!)

Stefano Maria Simone nasce a Chieti l’8 settembre 2002. È iscritto alla facoltà di lettere classiche dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti. Nel 2022 ha presentato la sua prima raccolta di poesie dal titolo “Amaryllis, lacrime di passione”, edizioni Irdidestinazionearte, con prefazione di Massimo Pasqualone e seconda classificata al premio Internazionale Luca Romano 2023. Sempre nel 2022 viene insignito del premio Internazionale “Gabriele Basile” e del premio Internazionale di Letteratura “Francavilla Urban Festival” con la composizione “Vuoti interiori” che conquista il primo posto. Le sue poesie “Ricordi”, “Ero innamorato di un sogno” ed “Attimi”, vengono inserite nell’antologia “Il canto di Zefiro” edita da Teaternum edizioni. Dal 2022 entra a far parte del comitato scientifico dell’associazione culturale “Irdidestinazionearte” presieduta dal critico letterario e d’arte Massimo Pasqualone. Nel 2023 partecipa al simposio “Thaumazein”, in occasione del Francavilla Urban Festival, durante il quale intervista l’ex Rabbino capo di Torino, Rav Ariel Di Porto, sugli aspetti della cultura e della religione ebraica. Nello stesso anno presenta l’antologia italo-francese, edita da Teaternum edizioni, “Du coté de la beauté, anthologie d’écrivains italiens à Paris”, a Parigi, nel celebre caffè “Les deux Magots” e a Minori nel corso della “Festa del Libro in Mediterraneo, incostieraamalfitana.it” insieme al giornalista e scrittore Alfonso Bottone. All’interno del volume è contenuta una sua prosa poetica intitolata “Non voglio parlare”. Nel 2023, viene insignito nuovamente del premio Internazionale di Letteratura “Francavilla Urban Festival” con la raccolta “Le verità dell’anima”, ancora inedita, che si aggiudica il primo posto. Viene nominato membro della giuria tecnico scientifica del premio Marrucino 2024 che si svolgerà nell’omonimo teatro teatino.

Le liriche di argomento religioso di SILVIA DI DONATO (Tonita Di Nisio)


Le liriche di argomento religioso di SILVIA DI DONATO

di Tonita Di Nisio

Alcune liriche nella silloge Paradigmi della complessità (Di Felice edizioni) sono dedicate alla ricerca di Dio, ricerca che a volte si aggrappa alla razionalità (PASSEGGIATA), a volte si abbandona all’intuizione della fede (INDOVINARE DIO) o all’estasi (SMARRIMENTO DIVINO) e, altre ancora, si scontra con l’incredulità (PALINGENESI: Non è altrove, se non in noi l’eternità.pag.51, perché rapsodico è il dire divino/che salva (IL DESERTO PERFETTO pag.52). 

Quel che amo di questo libretto è il trascolorare del discorso da un tema all’altro per poi seguitare a stemperarsi da un’affermazione in una nuova considerazione fino a giungere ad attestare, nei temi esistenziali, i paradigmi della complessità (CANTO DEL SAPIENTE). Ad esempio, i versi di Silvia spesso cantano il presente, l’immanenza in VIVERE IL PRESENTE, in cui la massima di Wittgestein posta in exergo recita: Presente a cui l’eterno corrisponde/ punto a punto: ovvero, se intendo bene, Silvia individua la goccia del presente ne lo gran mar de l’essere (Dante, Par.): colloca il pulviscolare nell’Universo, nell’Infinito. Potrei affermare che abbia desunto da Dante la lezione di poter parlare dell’eterno proprio perché parte da quanto è “assolutamente-reale”? Probabilmente sì, infatti parla della felicità che si identifica con la terra, anche se si fa fango. (STARE NELL’ORA CHE ACCADE ) È un mistero? È IL MISTERO più grande, che ha però la sua auto-spiegazione: Idea, causa di sé, necessità (IL VERSO TOTALE) E perciò a Dio, che è Amore, la poetessa può dire: Ti fai infinito nel sole carico di tempo, di vita e di dei (IL PIÙ GRANDE DONO). Dovremmo concludere con l’amato Borges: Il più prodigo amore gli fu concesso/l’amore che non si aspetta di essere amato, cioè ricambiato: Borges, che Silvia richiama in exergo, parlava dell’amor Dei intellectualis spinoziano, per cui l’amore umano verso Dio e quello di Dio verso gli uomini sono un solo e medesimo amore. Ne consegue che tale Amore comprende e contiene anche l’amore dell’io lirico, di Silvia: Indicibile / la mia fame di Te si scioglie/ in quest’incandescenza sorgiva/ che accoglie il mondo (LA MISURA DEL GIORNO). La poetessa invoca amore amante amore amato e, forse identificandosi con Mosè, in  ESODO 3,14, scopre  che tutto proviene da Dio . Indi proclama : la verità tutta intera/è un’idea poetica/ più poetica è l’idea di Dio. È una verità indicibile, se non in nuda poesia, la poesia di una “mente innamorata”, per usare l’espressione di Alda Merini. A questo proposito, mi pare opportuno ricordare che Borges, nel prologo della sua Obra poetica, riconosceva che “ogni poesia è misteriosa e nessuno sa interamente cosa gli è concesso di scrivere.” Il Cardinale G. Ravasi ha sostenuto che la fede e la poesia sono sorelle perché entrambe tendono all’Altro e all’Oltre. Come avviene in Silvia! 

L’atmosfera della Pasqua mi spinge a riaprire il libretto di poesie di Silvia Di Donato , per rileggere due testi che sono in tema. All’interno della silloge si rintraccia in alcuni testi il tema religioso, talora connesso a quello filosofico: il soggetto costituisce un altro passo avanti nella conoscenza della Complessità che la Di Donato pone al centro della sua ricerca e così il lettore è indotto allo scavo, all’inchiesta tra i versi. La presenza di Dio e di Cristo si richiama a pagine dei testi sacri: bellissima l’invenzione all’origine de IL CATINO! Il bacile è sì quello in cui si lavò le mani Pilato, dinanzi alla folla (Matteo,27,24). L’autrice montalianamente (Cfr. Cigola la carrucola nel pozzo: vs.4 nel puro cerchio un’immagine ride) lo mette in rapporto ad un volto che si specchia: Mi specchiò il volto un puro cerchio d’acqua. Quello che si specchia non è il volto del 5° governatore, che ha abdicato al proprio ruolo, ma di un Altro. È l’Altro è Colui che è stato tutte le acque di cui il Vangelo ci parla: al pozzo di Sicàr dove attingeva la samaritana; al lago di Tiberiade dove Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni furono chiamati per divenire pescatori di anime; a Cana negli orci che videro alle nozze il prodigio della trasformazione in vino; al Giordano, ove Giovanni  si vide chiedere dal Cugino lo stesso battesimo di conversione, che dispensava alle folle; alle piscine di Siloe e Betzaedà, ove furono operati i miracoli sul cieco nato  e sul paralico;  al Mare di Galilea, sulla superficie del quale il Signore camminò e dove apparve dopo la Resurrezione . È Cristo: solitudine ed eresia/scandalo, perfetto enigma. È Cristo che si specchia nel catino: Colui che sarebbe diventato altra acqua, ACQUA VIVA. 

C’è una lirica la cui lettura è irrinunciabile: LA LAMPADA DI PSICHE. A Manoppello, paese della Di Donato, sorge il santuario del Volto Santo, ove è conservato il velo di bisso che ritrae l’immagine di un volto che la devozione popolare e la fede ritengono il Volto di Gesù così come si stampò sul drappo della Veronica durante la salita al Calvario. Altri studi hanno portato a ritenerlo il sudario poggiato sul volto di Cristo, dopo che fu collocato nel sepolcro. È stata studiata la sovrapponibilità del volto della Sindone di Torino e quello che appare nel Velo di Manoppello: non mi permetto di esprimere giudizi o pregiudizi personali, devo solo sottolineare in questa sede che l’immagine, secondo una consolidata tradizione, sarebbe “acheropita” cioè “non disegnata o dipinta da mano umana”: ciò offre al credente che osserva il Velo una consolazione, ma lo pone dinanzi ad un problema di fede, che ancor più radicalmente interroga l’incredulo, il miscredente, lo scettico.  Silvia Di Donato , sin dal titolo, ci porta a svelare il Volto Santo, con il batticuore ed il passo impacciato e titubante di Psiche che vuole scoprire il viso di Amore: la Di donato desume dal mito il conflitto interiore della razionalità dell’anima che ambisce a conoscere il vero viso dell’Amato.

Cerca pure, o lettore, il volto di Cristo, che è Amore, dovunque: è Panim, parola plurale, volti/presenze. Ma, se sali sul Colle Tarigni,/ lì non fare domande Silvia avverte chi si inoltra verso il Santuario per indagare il Mistero del Velo di bisso. Invita così il pellegrino che pretende di capire: Cammina nella fiducia, cioè abbandonati al Mistero del Volto che ti guarda. Borges dice che il volto “duro, ebreo” di Gesù ci guarda e Alda Merini “ti cerca per ogni dove/ anche quando tu ti nascondi/per non farti vedere”. E, quando il credente o lo scettico rinunciano con la chimica a tentare di capire,   a questo punto avviene la rivelazione, l’epifania di Dio: si lacera il tessuto spazio-tempo e si manifesta Penuel , il Volto di Dio. Un’ultima raccomandazione al pellegrino che compie l’itinerarium mentis in Deum: Posa la tua lampada / e lasciati guardare. Silvia ci richiama ad una delle più straordinarie invenzioni paradisiache di Dante, del 33° Canto. Capita a Dante (PAR:127-138), nell’ investigare la seconda persona della Trinità, di vederla manifestarsi dipinta come figura umana. V. Sermonti: “Invisibilmente campito nel Figlio di Dio, si ostende all’uomo Dante il figlio dell’Uomo: suo fratello, suo identico, lui.” Silvia invita il viandante all’esperienza di trasumanazione, quella di specchiarsi negli occhi di Cristo e incontrare l’Amore perché, se lo si cerca, si invera quanto San Paolo afferma: “Tu entri dalla porta dello sguardo.” Chi si è spogliato del suo io, per dimenticarsi di sé nella visione del Volto di Cristo, si vedrà e riconoscerà come fratello del Figlio dell’uomo. 

GIUSEPPE ROSATO – TEMPI SUPPLEMENTARI


Giuseppe Rosato è uno dei più significativi poeti italiani del secondo Novecento e dei primi decenni del Duemila, giunto a un numero incalcolabile di pubblicazioni. Nato a Lanciano nel 1932, autore di versi in lingua e nel dialetto frentano, di romanzi, racconti, prose, scritture varie, a mio avviso meriterebbe di essere candidato italiano al premio Nobel per ka letteratura italiana. La sua lezione, altissima, gli proviene direttamente dalla frequentazione della classicità, assimilata nella forma così come nei valori etici.  Ne scaturisce uno stile personale inimitabile, che raggiunge i massimi risultati nel recentissimo “Tempi supplementari”, pubblicato da una coraggiosa editrice, Di Felice Edizioni, in una collana prestigiosa, “Il Gabbiere”, in cui sono ospitate opere di olandesi, arabi, catalani, italiani e alcune antologie notevolissime, come quella curata da Emilio Coco riguardante la poesia latinoamericana di oggi. 

Avevo già annotato che “Il soggetto di ogni poesia di Rosato si rivela essere non un semplice sintagma nominale bensì un’intera frase che costituisce in genere il primo verso della lirica e che funge da argomento tematico sviluppato poi all’interno del testo. Pronunciate in terza persona o espresse impersonalmente da un intimo silente flusso della coscienza che inanella le parti di una lunga e meditata riflessione, queste frasi si sviluppano in una concatenazione sintattica stringente, ordinata, molto articolata e complessa, densa di subordinate. La costruzione sintattica, originale impronta della scrittura rosatiana, domina la lingua e la conforma alle esigenze di un dettato classicheggiante.”. 

In questa ultima raccolta sembra che la poesia sgorghi immediata e fluisca senza ostacoli dalla penna di Rosato, tant’è che le sue riflessioni offrono una perfetta rispondenza di costrutto sintattico- lessicale, stile e immaginazione, in un’unione mirabile di forma e di contenuto, tanto da permettere alle idee di giungere a una risoluzione testuale senza precedenti:

“Mondi, pianeti, stelle vive e morte/ giravano e giravano nel cielo/ tutto nero. Ma poi prima di giorno/ cantò un gallo, un bambino pianse, (il sole/ riapriva) (gli occhi della terra).”, quattro endecasillabi chiusi da un doppio senario (secondo la mia partizione ritmica, distinta con il corsivo) che formano un periodo semplice, ipotattico, in cui non si avverte un soggetto, e l’idea si fonde in modo sublime nel testo, creando una specie di lungo aforisma. Sembra che Ii soggetto sia la poesia stessa, talmente l’idea si compenetra nel tessuto lirico. I mondi che girano, coincidenti con la riflessione del poeta, dell’auctor e dell’agens, costituiscono un ricordo, forse un sogno, oppure riconducono a una sensazione descritta così bene che il lettore vi si identifica immediatamente. Alla descrizione di mondi e stelle che giravano nel cielo nero si aggiunge in opposizione poi, il risveglio, l’epifania di qualcosa che accade di nuovo, contro ogni previsione. È la metafora stessa della vita attuale del poeta, ultranovantenne, che svela la sua meraviglia di fronte alla vita nonostante sia ridotta a una semplice alternanza di notte e di luce. Che è poi la metafora più viva della vita e di ciascuna creatura, dall’attesa alla meraviglia di un accadimento che viene a squarciare il reale con il suo stesso senso, come per miracolo, nella espletata speranza della ovvia, semplice alternativa di luce e di ombra. La lingua si impone per la sua sentenziosità, la lingua dice se stessa e si rinchiude e si esaurisce e si compie nel proprio dire. Essa stessa si oppone alla propria affermatività con una congiunzione avversativa (“ma”), cui seguono avverbi di tempo, che assumono il valore di deittici, dando una direzione alla lingua: la lingua smentisce se stessa, si contraddice e si fa carne, si fa luce. Il buio di una materia informe acquista un senso grazie a se stessa, alla direzione che intraprende. È dunque la lingua a indicare il percorso della poesia e a fare del poeta una singola, piccola voce che canta il valore della lingua. Tutto il libro segna l’affermarsi di una vocazione, di una lingua che ha assunto un’invisibile intimità per cantare, per esprimere la propria presenza-speranza. Si tratta di un’esaltazione o piuttosto di una esitazione della lingua? Non solo di quelle, ma anche di ciò che vi si oppone.

È la lingua che fa luce e fa ombra, che gioca nell’intima voce – nella cuna in cui si offre per manifestarsi:

“La luce del mattino nelle stanze/ ti porta, poco a poco sei tu/ che me ne torni a far vivere/ solo a tempo una vita, e già l’ingombrano/ l’ombre salite col giorno:/ Una luce diversa avrà la sera/ schiarirà ombra ad ombra la casa/ una parete un andito un passaggio/ ricordo per ricordo, sarà/ tenue tenero lume/ a farti sposa al mio silenzio.”, dove si accenna alla presenza di Tonia, poetessa e compagna di vita di Peppino Rosato, grandissima figura di Donna immagine stessa della lingua e della luce, di memoria e presenza, e infine di silenzio. Una metafora della Lingua, che sparirà nel Silenzio, anzi che si farà Sposa del Silenzio.

Protagonista è “questa luce del mattino nelle stanze”, soggetto di lingua e di pensiero, che reca la presenza, il ricordo dell’amata tornata a vivere, nonostante le ombre la confondano. La poesia si slancia e si fa narrazione leggera, fluente, senza alcun intoppo, e dal primo all’ultimo verso la riflessione sembra crearsi con la lingua, e che sia la lingua stessa, grazie alla sintassi, a parlare, a dar fiato.

“E io? Volete dire, amici miei,/ io cosa faccio? Ovverosia se scrivo?/ Certo che scrivo, e aggiungo: continuamente./ Prendo la penna come i pasti un inglese/ più volte al giorno ma sobriamente./ Quel che mi sfugge è il punto di arrivo,/ dunque eludo il progetto. Le mie pretese/ si fermano al quarto rigo, finita/ a quel punto ogni forza direi/ di pensarmi domani vivo/ per scrivere il quinto. Così metto punto./ La mia fiducia nella vita/ credetemi non va oltre l’appunto”.

Sì, Rosato, poi, è fatto per smentire il lettore, per sviarlo, per dirgli ironicamente che forse la poesia non si esaurisce con una lettura, neanche con migliaia di altre letture, con l’augurio che ciascuno sappia leggere in Rosato quel che riesce a leggervi. Perfino il Silenzio.

(Massimo Pamio)

© La riproduzione di questo saggio deve essere richiesto all’Autore: maxpamio@yahoo.it

RICCARDO SANTARELLI – TUTTO SECONDO GLI ACCORDI – EVERYTHING ACCORDING TO THE CHORDS 


TUTTO SECONDO GLI ACCORDI – RICCARDO SANTARELLI

La lettura di “tutto secondo gli accordi” di Riccardo Santarelli mi ha profondamente colpito. L’idea di coniugare la musica con la parola scritta (un accordo per ogni poesia, al fine di generare una sorta di canzone o di sinfonia) fondendo sinesteticamente la poesia di un colore e di un armonico con una lingua tenerissima all’impronta della Voce dell’Amore, Quella che Amato nell’Amato trasforma in una Terza Persona. Alla fine della lettura ho esclamato con rapimento estatico, fervore, gratitudine e meraviglia: “Riccardo!”, con un soffio di voce, un sospiro, un moto di affetto e di stima, di riconoscenza e quasi di rimprovero per la sorpresa di un amico che si lascia musicista e si ritrova poeta., che ha nascosto una sua metamorfosi di bellezza e spiritualità, che durante il suo addio al celibato ha trascorso tre giorni di raccoglimento nel monastero benedettino di Praglia. Ad maiorem Dei gloriam. (Massimo Pamio).

MI BEMOLLE SESTA

Non capisco 

il mio sguardo:

ride dei grattacieli

ma poi resta qui,

sul pavimento,

scrutando lo scorrere

di idee e silenzio.

Ora mi sovrasta,

fotografandomi impietoso

mentre da sempre

cerco di appendere

l’orologio sincero

che sta fermo al presente.

(Riccardo Santarelli, da “Tutto secondo gli accordi”, Eretica Edizioni, Buccino (Salerno), 2022)   

EVERYTHING ACCORDING TO THE CHORDS – RICCARDO SANTARELLI

Reading Riccardo Santarelli’s Everything According to Chords made a profound impression on me. The idea of combining music with the written word (a chord for each poem, in order to generate a kind of song or symphony) synaesthetically blending the poetry of a color and harmonic with a tender language in the imprint of the Voice of Love, The One that Beloved in the Beloved transforms into a Third Person. At the end of the reading I exclaimed with ecstatic rapture, fervor, gratitude and wonder, “Riccardo!” with a breath of my voice, a sigh, a motion of affection and esteem, of gratitude and almost of reproach for the surprise of a friend who leaves himself a musician and finds himself a poet., who has hidden a metamorphosis of his own in beauty and spirituality, who during his farewell to celibacy spent three days of recollection in the Benedictine monastery of Praglia. Ad maiorem Dei gloriam. (Massimo Pamio).

E-FLAT SIXTH

I do not understand 

my gaze:

It laughs at the skyscrapers

But then it stays here,

on the floor,

scrutinizing the flow

Of ideas and silence.

Now he towers over me,

photographing me mercilessly

while forever

I try to hang

the sincere clock

That stands still in the present.

(Riccardo Santarelli, from “Everything by the Chord,” Eretica Edizioni, Buccino (Salerno), 2022)

ANTONELLA CAGGIANO – PENELOPE


Antonella Caggiano

Penelope

Ti vedo

Penelope

con le mani cariche di spesa

e il pensiero di far da mangiare

a chi non ama

Affannata sul sudario

 della tua tela

corri dietro a Telemaco

a non essere abbastanza

certa di non bastare

Ti vedo

versare anche l’ultima lacrima

sui grani di rosario

e – sempre di notte- 

confidi la tua stanchezza

Al mattino ti stiri il vestito,

asciughi i pensieri cupi

Lo specchio ti rimanda la luce.

Penelope

I see you

Penelope

with your hands laden with groceries

And the thought of feeding

To those she does not love

Labored on the shroud

 Of your cloth

Run after Telemachus

To be not enough

Certain that you are not enough

I see you

shedding even the last tear

On the rosary beads

And-always at night- 

you confide your weariness

In the morning you iron your dress,

you dry the gloomy thoughts

The mirror sends you back the light.

NOI – GIULIA MADONNA


Giulia Madonna

NOI

Noi, cosa eravamo noi?

Noi eravamo i semi di una stessa mela.

Ed oggi cosa siamo noi?

Oggi siamo ancora i semi della stessa mela,

ma mentre io cerco di dormire per sognare ancora di noi,

tu resti vigile e in agguato

per trafiggere le mie ultime speranze, le mie ultime illusioni.

Ma ricorda,

noi resteremo per sempre quei semi della stessa mela,

anche se tu non vuoi,

anche se tu non ci credi più.

WE

We, what were we?

We were the seeds of the same apple.

And today what are we?

Today we are still the seeds of the same apple,

But while I try to sleep to dream of us again,

you remain watchful and lurking

To pierce my last hopes, my last illusions.

But remember,

we will forever remain those seeds of the same apple,

even if you don’t want to,

even if you no longer believe.

 (da L’equilibrista)

SANDRA DE FELICE – CARICHI RESIDUALI


CARICHI RESIDUALISandra De Felice

Mai avrei pensato

che in Ragioneria nascesse una poesia…

Un conto economico

alla sezione Dare destinato,

a bilanciare

della sezione Avere

la spesa per gli Umani a mantenere …

È un conto un po’ immorale, definito

” Carico residuale “

che la cassa dello Stato fa traballare.

Un conto ideato

per Merce un po’ …inusuale,

per merce deperita

e scaricata via Mare.

Ma come ben sanno i Ragionieri, 

alla fine

I conti devon pareggiare

e saremo  mano a mano

tutti da azzerare,

tutti noi

futuri Carichi Residuali.

RESIDUAL LOADSSandra De Felice

Never would I have thought

that a poem would be born in Accounting….

A profit and loss account

in the Giving section intended,

to balance

of the Having section

the expense for Humans to maintain …

It is a somewhat unethical account, referred to as.

” Residual Load “

That the state’s coffers teeter on.

An account designed

for somewhat …unusual Merchandise,

for goods that are perished

and unloaded by Sea.

But as the Accountants well know, 

in the end

The accounts must balance

And we shall be hand to hand

All to be reset,

all of us

future Residual Loads.

MANUELA DI DALMAZI – I POETI NON SONO VEGANI – POETS ARE NOT VEGANS


“I poeti non sono vegani’

Nel loro dolore perpendicolare,

gridano carne e cicale.

Scuoiano la realtà con cura

come la pelliccia di un coniglio

e dell’aglio, un ventaglio

intorno al collo, 

al callo dell’umanità.

No, i poeti non sono vegani,

sminuzzano il Pane 

del finocchio gratinato

sul tramonto dell’essere

e dell’essere al tramonto

la Carne alle ortiche.

No, i poeti non sono vegani

mangiano la carne dei sospiri,

dei deliri

il pane e olio degli oblii,

come la cipolla a julienne

sta al pianto del coltello.

E se scrivono 

sono il silenzio

attorno ai denti.

E con i morsi

danno il nome 

alle rose.

E con i morsi

che piegano i versi

quando il verso

non si piega,

quando la vita

non si spiega.

(Manuela Di Dalmazi)

“Poets are not vegans’

In their perpendicular pain,

They cry out meat and cicadas.

They skin reality with care

Like the fur of a rabbit

And garlic, a fan

around the neck, 

at the callus of humanity.

No, poets are not vegans,

they shred the Bread 

Of fennel gratin

on the sunset of being

And of being in the sunset

Nettle Meat.

No, poets are not vegans

They eat the meat of sighs,

of delusions

The bread and oil of oblivion,

as the julienned onion

Stands to the cry of the knife.

And if they write 

they are the silence

Around the teeth.

And with bites

they give names 

To the roses.

And with the bites

they bend the verses

When the verse

does not bend,

when life

does not explain itself.

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