DIVAGAZIONI INTRODUTTIVE ALLA MOSTRA DEL GIARDINIERE FIORANTE di LORENZO VIOLA di LUCIANO TROISIO


DIVAGAZIONI INTRODUTTIVE ALLA MOSTRA DEL GIARDINIERE  FIORANTE  di  LORENZO VIOLA

di LUCIANO TROISIO

 

Mentre bighellonavo in qualità di perdigiorno di ruolo in meravigliosi giardini (nonostante il disprezzo di un grande scrittore che me l’ha proibito d’autorità, pena l’espulsione dal partito, capirai la gravità!), comunque ben poco interessato al Reale, ai senatori del mio lontano Paese, tantomeno ai problemi dell’integrazione, visto che nessuno mai mi rivolge la parola neanche nel mio condominio, e girellavo già la mattina presto a stomaco vuoto, quando sfrecciano soltanto i pulmini pubblici che portano verze, maialini e anatre al mercato, e i miserrimi caffè non hanno ancora riempito i luridi termos, e sta aprendo la biglietteria della zona dei tempietti a pagamento, ora rinverdita da molti allogeni cipressi alti e snelli forse importati dal lago di Garda, e non avevo ancora preso le varie pastiglie, e invece scattato già decine di foto a fiori, guy e persone e perfino a una classe di bambini benestanti in gita, coloratissimi agghindati sotto una tettoia, che disegnavano con attenzione, ripresi da cento genitori e varie telecamere TV; un po’ triste e affamato, nonché fiso ad alcuni gravi pensieri (che non desidero condividere), tra stuoli di aironi che andavano a posarsi sui fitti canneti in riva al lago, e tutto era freddo, gli steli ricoperti di rugiada, filiformi che finivano in bambagia spighe o fiori, e una coppia di musulmani eleganti e facoltosi di mezza età mi aveva pregato di immortalarli in foto con le loro costose macchine (gente simpatica, e ne scattai una decina), vicino al grande Banyan sacro di molti secoli, che tutti i visitatori ricorderanno, (lì all’interno del cratere Bratàn nell’isola di Bali), sono stato raggiunto in Wi Fi Zone da un’e-mail del piuttosto famoso pittore Lorenzo Viola, prestigioso (e probabilmente il migliore) testimone e memoria storica di un Veneto delle tradizioni, soprattutto Contadino e Montanaro. Come sappiamo esiste anche l’ancor più prestigioso Veneto Marinaro, protagonista di molte opere di Viola e di una sua esposizione a Jesolo nel luglio 2011).

O meglio: da un’e-mail della sua illustre Galleria (a meno di cento metri dalla famosa Pala del Giorgione); con la quale e-mail la sua plenipotenziaria figlia Ambasciatrice-Curatrice-Direttrice-Dottoressa Barbara, perentoriamente mi ordinava senza mezzi termini di scrivere una poesia sui fiori paterni e di darmi una mossa perché il catalogo va in macchina a metà settembre.

 (Il 23 novembre il pittore Lorenzo Viola inaugura al Museo Giorgione di Castelfranco, una grande Mostra per la prima volta nella sua bimillenaria carriera, completamente dedicata ai suoi fiori).Trasmissione di girasoli nel vaso bianco, 1970

 

                                        *

 

Attorno alla carrucola del pozzo

si è avvolto un convolvolo.

Andrò a chiedere acqua alla vicina.

[Caro Lorenzo, ti dedico questi versi].

 

Udii questi versi alla radio, recitati da una voce femminile, ferma. Ero un bambino. Non li ho più dimenticati, sebbene non sapessi nulla: né che si trattava di un haiku, né che l’Autore era una celebre poetessa giapponese del periodo Edo, vissuta nel Settecento: Fukuda Chiyo-ni. Consultando Google e Wikipedia, (strumenti preziosi farciti di infiniti strafalcioni da indefiniti cialtroni), il cercatore paziente riesce a risalire alle nozioni esatte, smaschera i molti scarti, scopre che le traduzioni di questi versi sono praticamente infinite e di tutti i livelli.

Una volta, rubando l’haiku per intero in una mia pagina, un ottuso commentatore lo scambiò per la carrucola cigolante di Montale. Spesso “carrucola” viene reso anche con corda; sono parecchie le traduzioni che fanno ridere/piangere. Secondo me una delle più scadenti è quella di un inglese che conclude: I ask for water. Di una banalità, di un azzeramento, di un minimalismo da estrema astenia che solo certi poveri americani sanno apprezzare e premiare. Non voglio essere sarcastico: so che è (stata) una moda molto seguita anche da celebri furbastri, un  goal cercato, un abbassamento di tono, una finta sciatteria che si rivolge anche ai non acculturati, notoriamente tutti bisognosi di acqua. (Quindi si tratta di un avvicinamento all’Universale, all’irrigua platea della globalizzazione. Alla fine qualcuno potrebbe ritrovarsi eletto al Sinedrio).

 

Da qualche parte ho letto che convolvolo è stato tradotto anche vilucchio. Qui potrei permettermi un’associazione superflua e personalissima col termine “Filiforme” tanto caro a Viola (non c’entra, ma potrebbe centrare). Ambedue i lemmi sono congrui; convolvolo suggerisce di più l’idea del rampicante che “si avvolge” alla carrucola. Forma una spirale che con/centra l’attenzione più sul “Rizoma” rampicante, la allontana (dal fiore omonimo e soprattutto) da quel concetto di “Filiforme” che l’Autore insiste a dichiarare “da sempre” presente nelle sue opere floreali, anche laddove il filiforme del fiore, del gambo, contrasta con i segni che costruiscono il contenitore-vaso-cestello, (specie in opere del 1966). È vero che anche una spirale può essere filiforme. Rischieremmo di inoltrarci nell’intricato (come si dice in tedesco) “sentiero che si interrompe nel bosco”, nell’oscurità della critica psicanalitica che richiede spesso tempi lunghi (e perduti). Però…

 

Sono tentato di scrivere appena ne avrò il tempo e l’estro, un intero vasto saggio su questo haiku, che certamente lo merita. Ce ne sono già molti in giro per la rete. Non è escluso che lo faccia in altra sede, sempre in ambito vivaistico. Quindi i fiori di Lorenzo Viola rimarrebbero, almeno per me, in un certo senso pertinenti e spiegherò più avanti perché.

I traduttori (occidentali) dal cinese e dal giapponese godono in genere di pessima fama e solo gli eccellenti si possono permettere una critica di alto livello filologico (il migliore era considerato Ezra Pound) . Siccome non conosco bene nessuna lingua, sarà bene che mi limiti a osservazioni estravaganti per quanto non prive di suggestione.

Il giorno e la notte, 1987

 

Perché inizio a parlare dei Fiori di Lorenzo Viola partendo in apparenza da così lontano (e in ogni caso rimarrò lontano, lascerò insoddisfatto il desir, essendo questa soltanto una “manovra di avvicinamento”, muovendo da labirinti testuali più tipici dell’errante Sogno della Camera Rossa che del florido casalingo labirinto vegetale di Villa Pisani di Stra? Dove tutti almeno una volta siamo dovuti ricorrere all’aiuto del volontario domenicale per uscirne? (Oh, metafora)!  C’è un minimo nesso? [Ce ne sono vari ma ora non li dirò. Non mi sfugge comunque che in una presentazione-introduzione, per necessità sintetica, non si deve commettere l’errore (tipico soprattutto dei cinesi) di parlare troppo (una conferenza più breve di due ore è considerata un insulto all’etichetta). Soprattutto perché l’Introduzione risulta una Sineddoche, una piccola parte rispetto al Tutto (che è l’Opera di cui si parla). Risulta quindi per necessità incompleta, divagante e ferma soltanto nel porre l’Autore al centro del messaggio].

 

A questo pensavo giorni fa, mentre estasiato-stralunato visitavo lo Studio dell’Amico Pittore a Castelfranco Veneto (e non sarà peregrino annotare subito che ero appena tornato, da uno dei miei lunghi viaggi nell’isola di Bali, nelle sue ubertose foreste/risaie, nei fertilissimi alti collassati crateri dei suoi vulcani spenti, dove recenti immigrati islamici da altre isole (indonesiane) hanno dissacrato il millenario silenzio del piccolo Stupa buddista a lungo semisepolto dai rovi, risalente forse all’ottavo secolo d.C. e dei due Templi indù dai vari tetti sovrapposti [simbolo di perfezione, il massimo è di undici], con una sacrilega, architettonicamente orrenda Moschea/cisterna costruita su un pendio (in modo che sia visibile da lontano e specialmente dalla tranquilla zona dotata di millenario dolce indiscutibile equilibrio dei due coccoli Templi che non ne sentivano la mancanza). Prepotenza, pessimo gusto, mediocrità, volontà giacobina di prevalere ad ogni costo! Non ce l’ho più di tanto coi Musulmani (e col fatto che ti svegliano alle cinque coi loro Ollò Okbòr, cui indirizzo immediatamente una novena di bestemmie.)

Direi lo stesso anche se si trattasse di una Chiesa cattolica villanamente costruita sullo stesso sito scelto per la Moschea: offensivo, ignorante, pugno in un occhio (difendibile soltanto da un famoso architetto che fu mio compagno di banco alle elementari), privo di un minimo rispetto per il “Mondo” che esisteva anche da prima, per chi ci abitava da secoli, da prima che gli Arabi si affacciassero nell’enorme Arcipelago, al tempo del nostro Rinascimento, a mettere con inaudita violenza definitivo scompiglio (dovunque ma non a Bali).

Gli Indù-Balinesi che conosco abbastanza, sono gente dei Fiori, un popolo assai civile, erede del famoso Impero Majapahit, di una delle più raffinate culture del mondo intero. Gente che piacerebbe  a Lorenzo Viola se gli raccontassi che si alzano all’alba e si occupano per ore della confezione di vassoietti di foglia di palma colmandoli di fiori interi o a petali. Per questo scopo ogni casa ha, oltre che un vero vasto curatissimo recinto/Tempio [il primissimo significato di templum, (da temno: tagliare), allude a uno Spazio tagliato, individuato segnato nel terreno, in modo solenne, sacro], anche una serie di alberi di frangipani che danno splendidi fiori profumatissimi tutto l’anno. Ce ne sono di bianchi, di gialli, di rosati. Si possono mettere all’orecchio in segno di festa, se ne fanno collane per i turisti (solo se ricchi) in arrivo all’aeroporto, ma l’uso più comune è offrirli agli dei. E assieme al frangipani ci sono petali freschissimi; non dirò i nomi perché non li so, (pur sapendo filosoficamente che si dice solo ciò che non si sa). Ce ne sono di rossi, di rosa, di fuxia, di gialli, di bianchi, di indaco, e così via all’infinito. L’effetto è di una bellezza per me sconvolgente, e in questo senso possono benissimo ricordare la pittura di Viola, anche quella che non rappresenta fiori, ma scompone la realtà in colori-tessere, la ricompone in un Neo-Divisionismo su cui immagino troverò da discutere/litigare alacremente).

In questo punto va collocata una frase importante, uno dei vari detti aforistici che Viola inserisce nei suoi discorsi seri sulla Pittura: “I colori della povertà sono gli stessi del lusso”. Profondo. E tutto a mio favore quando sostengo che quelle omogenee tessere musive di realtà atomizzata, quella grande riserva è risparmiata per dipingere i suoi fiori. Quindi -ma non è certo che lui lo sappia- anche il tetto di una casa colonica è davvero coperto di fiori. E in palese contraddizione risalta specularmente l’“Aspetto florale” inserito nell’arredamento antico delle case aristocratiche, che dalla campagna passa alla nobile famiglia.

 

Quando il vassoietto, in genere quadrato ma non sempre, è colmo di queste tinte, di questi fantastici accostamenti degni soltanto degli Dei o dei Massimi Stilisti (che poi è lo stesso), si aggiungono un biscottino, una sigaretta, una monetina, una caramella e così via.

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Suggerisco a Lorenzo di fare un apposito viaggio a Bali (non sarebbe certo il primo artista occidentale a restarne stregato) anche solo per ammirare la mattina  le centinaia, le migliaia di offerenti, in genere giovani donne, addobbate di tutto punto con splendidi costumi fuori del tempo, in cui risalta -per non dilungarmi- una fusciacca stretta alla vita (che serve a isolare la parte inferiore del corpo, quella degli istinti più bassi). Tutto alla perfezione, apparentemente in tono minore. Sopra l’offerta viene posato uno stelo d’incenso fumante; si porta anche un piccolo recipiente di metallo, di solito di argentone, o un bicchiere. Si tiene un fiore tra due dita, lo si intinge nell’acqua sacra, si asperge l’offerta e il relativo oggetto, che può essere: la soglia della casa, una statua, la sella della moto, un albero, il negozio, l’insegna della homestay, un bungalow, una delle tante pietre sacre collocate dovunque. Non sono in grado di descrivere per verba la magnificenza, l’eleganza, il fascino, la sciamaneria, l’incantesimo di quel gesto sacro, che sebbene visto migliaia di volte colpisce l’alieno turista e genera rispetto, ineffabile serenità. Il tutto men che effimero, prima di appassire dura poche ore; viene rispettato da tutti, nessuno oserebbe pestare una delle migliaia di offerte che trova sui marciapiedi, sugli incroci, sulla soglia delle eleganti boutiques (qui dette toko toko), o davanti alle gelaterie italiane.

Non sarebbe il suo primo impatto: in passato Viola ha visitato più volte il Museo Orientale di Ca’Pesaro, restando impressionato, già nel 1957, da letture di oggetti, armature, suppellettili, sculture asiatiche, specie giapponesi. E in un certo senso si può affermare che l’oriente gli arrivava in casa, essendo suo padre importatore di sete dalla Persia. Le quali avranno certo influito con colori e arabeschi sul futuro pittore.

 

                                                *

 

 

I Musulmani in Indonesia rappresentano circa l’85% della popolazione; (non dimentichiamo che il 9% è Cristiano/Cattolico e il 2% Indù-Balinese). Si tratta del primo stato musulmano del mondo. In generale sono piuttosto moderati, educati e rispettosi col turista; e nemmeno da paragonare coi tanti cafoni del medio oriente. Almeno metà delle ragazze (di Giava) veste all’occidentale, non porta nessun velo e scorrazza in motorbyke con pantaloncini inguinali).

 

Soffermiamoci sul positivo: in questi fertilissimi crateri, fino a pochi anni fa zona deserta/depressa, i Musulmani hanno ingegnosamente impiantato una florida moderna orticultura. Al centro del paese di Candikuning si erge il grande monumento alla verde Verza alla base, sormontata dal giallo obelisco della Pannocchia: pop-art in ritardo (ma, direbbe Gozzano: produttiva.)

Quindi, oltre che visitare un limitrofo splendido Orto Botanico dalle piante sbalorditive, alberoni dal tronco sgronfolato di grosse misteriose palle, felci come le nostre ma che raggiungono i 15 metri d’altezza, serre fatate colme di orchidee multiformi e di altri infiniti fiori straordinari, si possono visitare anche i cosiddetti garden, che sono insieme privati giardini e coltivazioni di vari ortaggi, molti simili ai nostri, anche in varietà mai viste altrove (ci sono ad es.: molte specie di cipolle, anche solo ornamentali, che in cima al gambo verde hanno una palla sferica fiorita di straordinaria bellezza, e ancora grandi distese di ortensie, solo la varietà grigio-pervinca, che vengono seccate. Se ne vedono passare molti camioncini sovraccarichi. A che serviranno?

L’elenco potrebbe continuare se mi ricordassi di più (dovrei a questo punto consultare le molte immagini scattate in ore e ore di solitario passeggio, incontrando rari turisti tra le stupende superflue gombine, e più spesso lavoratori locali in ininterrotta manutenzione. Varie volte ho incrociato nei sentieri laterali, cortei di lussuose vetture nere, oscurate, lente, riservate ai supergalattici, a personaggi in visita, a mafiosi, a miti ladroni sfruttatori fruttiferi. Certo non ho dimenticato le distese di arbusti da frutto sconosciuti, di piante, queste più grandi, di cacao, di agrumeti a cespuglio, dai frutti piccoli, mediocri. Ne ho visti in vari paesi anche dell’Indocina, forse parenti di quelli arancini giapponesi che mangiamo anche da noi; ma invece, tutti gli altri nominati credo che servano per produrre essenze da profumo. E dovrò citare in una parentesi subito da richiudere, anche molti allevamenti di conigli, che attirano molto le ragazze. Avendo desiderio di stabilire commercio con fanciulle zoofile, non sarebbe peregrino fingere interesse anche solo fotografico per i simpatici animaletti…

 

Ma la regina assoluta è la fragola. È questo il vero posto delle fragole. Le coltivazioni sono su vari livelli, grandi tavole coperte da plastica nera, da ogni buco spunta una piantina. Quasi sempre si trovano in grandi gabbie lunghe circa cento metri chiuse a lucchetto, quasi gigantesche voliere di rete/screening a buchi piccolissimi, dove non passerebbe una zanzara. Per entrare bisogna chiedere il permesso. Come nelle voliere riservate a uccelli o farfalle, bisogna entrare in un piccolo vano, richiudere la porta d’ingresso e aprire quella per immettersi all’interno. Non capisco molto degli aspetti tecnici, però ho il sospetto che certe serre siano dotate di idrotermoregolatore e più complicate di quanto si possa immaginare. Quando vengo in questa regione (che si estende al di fuori dei crateri e comprende anche la zona di Munduk, a nordovest, ormai famosa sia per piantagioni varie, compreso il caffè, sia per gli interessanti itinerari di trekking), non resisto alla tentazione di fare una sosta. Lo faccio più per i fiori che per le fragole. Quasi sempre da solo. Una volta ho convinto delle pinzochere centenarie di razza nasika a noleggiare un’auto assieme a me, e seppur con una certa fretta, per tornare al livello del mare prima che il freddo notturno le stroncasse una buona volta, abbiamo passato un giorno (per loro) esaltante di cui si sono poi dimostrate assai grate. Un’altra volta con l’amico Filippo, abbiamo preso una moto. Ovviamente guidava lui. Siamo andati alle fonti calde, a stare delle mezze ore sotto un getto molto violento e bollente concentrato sulla spina dorsale -notati stupendi bikini francesi permalosi- poi abbiamo attraversato la zona di Munduk fermandoci a lungo a fotografare molte piante, dato che lui era un maniaco tecnico botanico. Poi gli ho chiesto se voleva entrare nel cratere, avvertendolo che in moto si prende molto freddo. E infatti siamo arrivati a Candikuning, vicino al monumento alla verza, intirizziti, tanto che lui è filato in un piccolo supermercato a comperarsi una camicia supplementare. Poi all’annesso ristorante, il meno squallido, abbiamo ordinato subito zuppe bollenti.

 

Mi sono fermato in questo cratere, in parte occupato da tre laghi, due giorni. Fa molto freddo, dopo le tre se non si è al sole si battono i denti, tanto che all’ombra del baretto del celebre Strawberrystop dove ho mangiucchiato e scritto l’intera giornata, prima di andarmene mi sono fatto fare una limonata bollente.

 

A questo punto non occorrerà più sottolineare il nesso tra Lorenzo Viola e queste coltivazioni di fiori: la visita toglie il fiato e c’è un ininterrotto corteo di Parawìsata (pullman turistici) colmi esclusivamente di turisti cinesi di Taiwan. Il  trasporto, la guida e la sistemazione in albergo è in mano alla casta/cosca dei Bramini. Dopo la visita, obbligatoriamente si beve il bicchierone del succo (dall’omogeneità dei comportamenti deduco che tutto deve essere già compreso nel costo dell’escursione. In generale i cinesi non hanno molta fantasia). A dir la verità (vogliamo dirla proprio tutta?) le fragole non sono un gran che, sono piuttosto pallide e aspre. (Ormai mi sono convinto che, con l’esclusione di qualche stupendo frutto tipico come avogado, ananas, pistacchio, dattero, mango, papaia, banana e ovviamente il cocco; in altre zone come il Kashmir: l’albicocca e la noce, la qualità della frutta italiana sia la migliore del mondo. Inclusa l’anguria, il fico, l’uva, la pera, la pesca, gli agrumi in genere). Quindi nel frullatore-frappé si può aggiungere yogurt, miele, gelato, panna, o zucchero a scelta.

Si possono anche acquistare (piccolissimi) barattoli di marmellata di fragole a 40.000 rupie (tre euro).

Le chiacchiere sono in mandarino, la gente è piuttosto giovane, assai frequenti i maleducati per i quali Taiwan è famosa nel mondo; e anche quel tipo di donna cinese che pensa di essere elegante e alla moda. Le ragazze sono spesso bellocce, la pelle è più bianca della nostra, le gonne troppo corte, il taglio mediocre, che ricorda il miserabile ridicolo livello, ancora oscillante verso la divisa di Mao azzurra o grigia, delle compagne shanghaiesi (certo non taiwanesi) degli anni Ottanta, a sbuffo, simili più che altro a tutù da sposine, di pessimo gusto.

Dando retta alla televisione, la moda cinese avrebbe fatto passi da gigante. Partendo da zero non è difficile. Controllando de visu il livello degli abiti è in generale pietoso.

Certamente più elegante lo stare nude o in bikini…

I maschi sono in genere meglio mimetizzati con le solite magliette e jeans, che peraltro sono sempre stati di ottimo livello dovunque (compresa Macao che da sempre li produceva per tutti a prezzi bassi).

Alla fine della sosta di circa un’ora, il risultato è che, accanto alle persone ritratte su sfondo fiorito, sono state scattate decine di migliaia di foto di fiori straordinari. Ogni anno io stesso resto stupito nello scoprire continuamente piante, fiori e anche molti frutti commestibili di cui ignoravo l’esistenza. Un paradiso terrestre.

 Il Monte Grappa innevato, 1996 olio su tela cm 50

Fiori, fiori ovunque, di una bellezza, di un’abbondanza forse unica al mondo. Io che ho abitato oltre quattro anni a Shanghai posso invece testimoniare che la Cina è una delle terre più povere di fiori. Naturalmente mi riferisco alle aree densamente popolate, non alle molte zone semidesertiche dove la natura prevale anche contro il volere dell’uomo. (Ricordo per chi se lo fosse dimenticato, che Pechino si trova al disgraziato limite meridionale dei grandi deserti, è caratterizzata da uno sfigato clima semidesertico essa stessa, che i pochi alberi devono essere continuamente innaffiati. Il Primo Maggio la città viene ornata da grandi vasi di splendide azalee, conservati e curati tutto l’anno in grandi depositi. Altra disgrazia: in primavera non è raro che ci siano grandi tempeste di polvere che entra dovunque, con grandi danni, proveniente dal vicino Gobi. L’estate è caldissima e piovosa. Durante l’inverno si può arrivare a meno 27 gradi. Il clima è molto secco, i capelli stanno dritti, spesso dandosi la mano si prende la scossa. Nelle città niente fiori, tutto grigio e finto, tetro, parchi senza erba (perché troppo calpestata) dove spesso si vedono cittadini che asportano ogni filo, ogni radice commestibile (come la famosa ragazzina manzoniana che precedeva la smunta vaccherella per sottrarle le erbe buone per umani).

 

 

                                                          *

Fiori ovunque di una bellezza, di una ricchezza davvero particolare. Ora sono volato all’interno del mondo di Lorenzo Viola, che non poteva indovinare persona più adatta di me per divagare su questo argomento.

Fiori, solo fiori.

 

Bisogna risalire agli anni Novanta per individuare Mostre dedicate da Viola ai Fiori: a Montebelluna, Castelfranco, Treviso. E nel 2001, nell’Antico Eremo di S.Pietro di Feletto, la Mostra “Silenti Nature”.

La prossima si annuncia molto più importante, fondamentale e decisiva per una abbondante se non esaustiva classificazione-esemplificazione dell’opera completa.

 

Parliamo di termini, di aggettivi. Bisogna trovare centinaia di titoli. L’Autore conosce benissimo quanto sia complicato questo problema, quanto la si tiri in lungo, quanto tutto sia (e resti nel nostro sacchetto segreto) eternamente provvisorio, certe soluzioni arrivino per costrizione all’ultimo momento.

Elenchiamo vari lemmi che nella fattispecie potrebbero essere rilevanti:

Eros, Florilegio, Colore florale, Flor

ὰνθος (ànthos): fiore

Origami, Ikebana

Erbario

Hortus Botanicus

Fiorante (questa l’abbiamo scovata sul Devoto-Oli): termine con cui nel Seicento si designava un pittore che dipingeva soggetti floreali.

 

Si tratta di “tutto il mondo” del Fiore visto, collocato, sistemato dall’orientamento dello sguardo di questo singolare Autore, consci della sua silente profonda rielaborazione con l’interiorità e con la Magia del Fiore.

Mentre parlavamo di questo io intanto pensavo a una lontanissima discussione fatta con altri giovani coetanei, studenti americani, che pronunciavano malissimo i nomi dei nostri pittori antichi, quelli anteriori ai grandi rivoluzionari (Giotto, Mantegna, Masaccio); quelli non ancora staccati dal cordone ombelicale  bizantino. Eravamo all’interno della cappella Brancacci, quella di Masaccio e Masolino. Erano focosamente animati dal dio della polemica, cortesemente agitati. Io quella volta viaggiavo con un caro compagno di liceo (Domenico C.) che però sorridente riusciva a rimanere molto più distaccato dalle cose. La mia tesi era che nessuno al mondo aveva manipolato-trattato-impiegato il Colore come i pittori veneti. I fiorentini non reggevano il confronto (almeno sotto questa angolatura sincronica); con molte perplessità, forse accettavo di discuterne parlando di Impressionismo-Espressionismo, pensavo anche a quello tedesco, e poi ai soliti Van Gogh,  agli ireos, al girasole impazzito di luce, ai “loro corpi d’oro”, insomma a tutto il bagaglio residuo (o se si preferisce: al paniere di Esopo) che ognuno di noi mediamente poi ricorda anche “da grande”…

 

Penso al formidabile uso dei Colori, e dei Fiori del veneto Lorenzo Viola.

Ho avuto la fortuna di conoscere l’Autore fin da giovane, seguirne le tappe, il progresso, i primi riconoscimenti, la Varietà/diversità, questa sì labirintica, degli interessi del suo sperimentare (dalla “prima rosa” d’amore del Settanta, conservata quasi per caso sull’antico focolare, cui seguirono: un innamoramento per la Francia e per la città di Nizza, viaggi in Spagna fino al 1973, l’approfondito studio dei Girasoli” di Van Gogh, il giallo, gli altri colori inventati dalle fornaci vetrarie, in Veneto quasi di casa, la passione per il collezionismo di suppellettili varie specialmente venete, per le carte antiche, dalle carte da parati prodotte dai Remondini alle pagine pubblicitarie per gelati (1991) fino alle “Barriere Florali” per autostrade (2012). E poi il mondo della musica [il padre amava la musica ed era musicista lui stesso], le preferenze Pucciniane, il mondo altrettanto se non ancor più misterioso delle Farmacie alchemiche, colme di erbe, di fiori secchi). Col tempo ne è uscita una vera e propria Wunderkammer delle Meraviglie da vedere, per quanto in fretta, e con moltissimo materiale; specialmente i quadri sono per necessità spaziale, ammassati di taglio nei cunicoli da sommergibile del suo pur vasto Studio, e tra essi, gran parte delle opere che saranno esposte in questa Mostra. Non ho ovviamente potuto vedere il molto materiale preparato per il ricco catalogo, che certamente fornirà al lettore il godimento di un’opera di alto livello, sistemata a dovere; perché una delle operazioni più complesse interessanti e faticose consisterà certamente nello stabilire cronistoria, tappe, periodi (una ventina), estri, pretesti, significati (Fiori in orbita, oppure “In Ghirlanda”?).

 

Viola lo sappiamo non è mai stato un accademico. Nonostante i suoi genitori abbiano insistito perché si iscrivesse a corsi regolari. È sempre stato contrario. E ricorda che i suoi studi sugli antichi maestri, negli anni Sessanta sono stati indirizzati verso le varie tecniche del lavoro disegnativo, tempera, china, matita, carboncino, acquerello. Prendeva in esame un’opera ad es. di Tintoretto, una Pala del Tiepolo. Però spogliava le sacre figure, quasi filtrava ai raggi X le varie anatomie. Questo studio è continuato nelle isolette della Dalmazia, dove il nudo è frequente e “libero nel paesaggio”, con centinaia di lavori tra la fine degli anni Sessanta e il 1975. (Argomenti trattati in un prossimo futuro, con specifica attenzione di studio sul soggetto Uomo).

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Ha frequentato di più l’auto-accademia degli autodidatti, che in certi linguaggi si definisce “della vita”, in altri on the road (ma non connotando l’ormai frusta espressione, sedimentata nel linguaggio degli storici dell’arte del Novecento e dei galleristi ebrei di New York, anche dopo il crollo dei prezzi gonfiati dei loro protetti, con i significati di fannulloni fricchettoni capelloni degli anni Sessanta-Settanta, che non gli appartengono, sebbene abbia viaggiato a lungo in tutta Europa, presumibilmente però con l’attenzione colta dell’intellettuale che (non solo guarda ma vede, e c’è una certa differenza), studia i monumenti e visita i musei, idolatra gli artisti, prende cotte da ogni parte. per molti autori. I freak invece, lo so per diretta esperienza, non hanno mai dato nessuna importanza alla cosiddetta cultura (vogliamo definirla ancora borghese?) e tantomeno alla normale informazione neanche cronachistica. Posizione che non mi ha mai visto d’accordo, anzi che ho sempre disprezzato e avversato, specie quando invano invitavo qualche ragazza a visitare con me importanti musei di Amsterdam, Helsingborg, Harlem, Bruges, Anversa. Quasi sempre dovevo andarci da solo, mentre loro preferivano fumare immobili per ore intere.

 

L’Esame di Viola parte dalla fioritura naturale trasmessa dalla natura, termine che significa cosa scontata quasi banale, mentre invece contiene ed espone un germe, un germoglio, un pollone; esistono varie parole che indicano alludono a Qualcosa che si tira fuori, anzi: che balza fuori automaticamente dopo aver covato nascosta per un tempo indefinito (In un granaio? Nel corredo della tomba egizia? In fondo allo stagno? Dentro una muta terribile silenziosa misteriosissima Cometa cui possiamo dare qualsiasi Nome/Significato? (Ma anche se lo chiamassimo Nulla, o Inconoscibile: Chi sarebbe?)

La radice principale indoeuropea è: PUL. Come pull, pollo, pulzella, pulcino, polla, pollone, polledro, pullulare, l’elenco sarebbe lunghissimo. Ora non mi dilungo a enumerare, perché so che nulla è più incerto delle parole .

Un giorno all’Università Imperiale di Tokyo un dottissimo personaggio sosteneva che anche PUER potrebbe avere la stessa arcana origine, di colui che si tira fuori, e approfondendo lo studio si fanno scoperte entusiasmanti (e quasi commoventi), ci si insinua nell’Accademia partendo dall’aspetto comune di quell’Autoaccademia che invece è profondo studio, filo senza Arianna ininterrotto e inconsutile, che quasi sempre resta indicibile/nefando, inconfessato, comunicato con figure retoriche di intricata trasmissione. Altrimenti il Gioco sarebbe troppo facile, (si potrebbero scoprire gli incubi, il privatissimo abisso…).

 

Parlo di fiori di piante, ma sfogliando le foto e i pregressi cataloghi del Nostro, potrei parlare sia dell’Anatomia del Corpo umano, del Nudo, della Figura, in tutti i suoi aspetti, affetti, cari atteggiamenti, ma anche della sua intensa quasi paranoica Tendenza allo Sperimentalismo. [In questo senso: come Sentire, gli sono affine, lo dichiaro con una certa serietà, per quello che può valere; essendo io da sempre sostenitore, almeno nel campo della scrittura poetica, dello Sperimentalismo accanito, di per sé artificioso ma sempre diverso e superiore a qualsiasi Genere, a qualsiasi Forma, comprese quelle metriche chiuse e costrittorie. Le ho sempre considerate forme provvisorie dell’espressione [come se qualsiasi Espressione non fosse sempre e soltanto Provvisoria…], che non deve mai prendersi sussiegosamente troppo sul serio, come vedo che fanno tanti operatori pieni di certezze. Una volta, lo ammetto finalmente, giungevo allo sconquasso sintattico, aderendo alle terroristiche posizioni del Professor Sanguineti, alla sua convinta (ironica?) fede nell’Impossibilità della comunicabilità/Comunicazione. Ora me ne sono distaccato, non credo più né al παραδὲιςος né alla Befana (abbiamo scherzato, eravamo giovani, perdonateci)  e sostengo al contrario che nessun Segno poetico avrebbe Senso se non fosse (almeno parzialmente e pur con tutte le distorsioni possibili, con tutte le astute sterzate semantiche novecentiste) comunicabile, e nella pittura ancor di più. Mi piace trascrivere qui un aforisma famoso che, anche se lateralmente, mi sembra sufficientemente congruo: “Nulla succede se non viene descritto”. Quindi non posso che lodare Viola per le Ore, “le Occasioni”, il tempo che ha Perso/Guadagnato occupandosi dei più svariati soggetti, dai particolari di Giorgione e Palladio, all’umile osservazione delle umili persone negli umili atti della nobilissima quotidianità, delle più varie attività come lo sport, il calcio, il moto-ciclismo. E il tutto inserito nella nobile attitudine tipica dei grandi. E mai dimentico  che Leonardo dava consigli pesanti come inestimabili tesori: guardate i muri, le macchie, le ombre cangianti della luce sugli intonaci, per (non) alludere poi ai vari Canaletto, Bellotto, Marieschi…, ai Maestri che tanti fotografi, troppo considerati, sembrano non aver avuto la poetica umiltà di considerare come maestri.

E ancora: un’attenzione fondamentale proveniente dal grande Heritage culturale dei Mestieri Poveri, che scompaiono, che vanno dalle illustri raccolte di incisioni settecentesche bolognesi e veneziane (Le Arti che vanno per Via), fino ai Mistieròi zanzottiani.

 

A un certo punto, dopo molto blaterare, gli ho sparato: e il Ritratto?

Finora non hai sentito l’urgenza di pronunciar il lemma Ritratto.

Non l’avessi mai detto: mi ha portato in un’altra cabina del capitano Nemo e mi ha sciorinato/snocciolato delle stupende foto a colori (perché Lorenzo è anche poeta fotografico e ovviamente ottimo tecnico (che produce da solo anche le immagini perfette dei suoi cataloghi). Così ho potuto ammirare alcune centinaia di ritratti, che per il momento non desidera prendere in considerazione, e che forse saranno soggetto di una prossima esposizione.

E lì vicino un’ulteriore chicca che certo verrà esposta tra i Fiori: la Cornice dello Zio Angelo, una vera invenzione di stile tahitiano. E nella “cornice esotica”  Colori antichi per una Vita Nuova, una china di Lorenzo del 1976, su documento del Dominio Veneto, destinata alla celebrità, perché illustre mascotte relitto/reliquia di infinite affabulazioni, fantastici racconti di viaggio in vari stati e staterelli d’America, dove lo zio Angelo vagabondò da militare tra il 1915 e il 1930. Due opere d’arte in una.

 

Non ho fatto una vera e propria intervista a Lorenzo. Diciamo che abbiamo conversato per alcune ore. La prova della nostra disorganizzata spontaneità consiste nel fatto che non avevo dietro nessun registratore, nessuna videocamera. A un certo punto sono stato costretto a farmi prestare un blocco notes e una biro. Così ho preso molti appunti per almeno 5 pagine.

Molto già sapevo. Mi sono ben guardato dal suggerire argomenti, dall’imbeccare come il giornalista furbino, che vuole portare il personaggio verso la sua tesi. Ho notato ad esempio la ripetizione, l’eccessiva presenza-preponderanza di alcuni temi, la quasi assenza-dimenticanza di altri. Ho cercato di ridurre al minimo le domande ovvie che tutti fanno a tutti, a chi ti ispiri, chi ti ha influenzato, da chi hai copiato, chi imiti, qui sembri Guidi, qui Brindisi, qui Matisse, qui somigli a Van Gogh e tutte le altre stupidaggini che si dicono per boutade, per gioco, a volte per vuoto, cui ogni Autore è abituato pazientemente da sempre, specie se collezionista sperimentatore come lui. I viaggi in Francia sono sufficienti a dichiarare amore per autori francesi. Certi ori, certi gialli per altri, e così per i colori-tessere (qui lo dico solennemente e qui lo nego) perentori, fondamentali che stabiliscono un certo “Statuto” del pittore, garantiscono per il suo mondo poetico profondo e affascinante, quindi solo personalissimo suo, sebbene dichiari un po’ ingenuamente: “sono diviso in 30-40 pittori che combattono dentro di me”). Sono questi depositi di tessere nel gigantesco fondaco musivo che nessuno Studio (forse nessuna eterna Net) potrebbe contenere e che, non essendoci altra soluzione, egli porta con sé, in sé, come il saggio antico (tradotto in latino/romanesco: ommina bbona mea mecumque porto. Dunque porto i Fiori con me.

                     LUCIANO TROISIO, settembre 2013

 

Nota dell’Autore

———————-

Ho riunito qui di seguito alcune proposizioni e singole parole, che Lorenzo Viola ha pronunciato con particolare forza ed efficacia, su cui bisognerà riflettere con calma e maggior estensione, non permessa in questa sede:

 

Il fiore mio nasce interiore da immagini del non visibile.

Una visibilità da invenzioni sognanti ispirate da pensieri musicali.

FILIFORME: forma erbale/verbale (da sempre operante nell’opera pittorica dell’Autore).

Trasmissione temporale: Modulazione secondo sequenze atmosferiche nell’ondulazione: sento una musica che trasmette colore.

Struttura da erbario in cui rilevo la natura in forme filiformi e la modulo in una estensione che può suscitare immagini astratte alla presenza, ma con maggior attenzione possono rilevare forme di vita visibili soltanto a un occhio più attento.

Possono suscitare anche richiami alla vita della natura stessa, al piacere di vederla e rispettarla.

Tutto il (mio) lavorio tende a “salvaguardare”.

Colori antichi per una vita nuova.

Memoria di immagine florale: il mio modo di trasmettere, come unione di persone e presenza di umanità, gruppo, sebbene sembrino fiori.

 

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