MARIO LUNETTA: MAGNIFICAT (Edizioni Tracce) di Massimo Pamio


Mario Lunetta, uno dei poeti italiani più rappresentativi, ha licenziato di recente per le Edizioni Tracce un’opera, “Magnificat”, che, nel proseguire le precedenti riflessioni sulla contemporaneità, precisa e rafforza una coerente logica narrativo-allegorica, ma soprattutto conferma la caratteristica dello scrittore romano, autore di un discorso unico spezzettato in un numero impressionante di raccolte la cui quantità di versi, il cui particolare coinvolgimento dello scrivente nella texture, nella tessitura di una verità personale tanto faziosa quanto polemica e concreta contribuiscono a determinare una non peregrina collateralità alle pagine del poema terrestre dell’Inferno, nonostante le evidenti differenze facilmente riscontrabili, laddove in “Magnificat” si rilevano una specfica ambienza storica, o si ostentano uno spleen tutto moderno e l’atteggiamento del flâneur, si formano bolle di cinismo, si professa un radicale disincanto, ultima verità della condizione depressivo-ossessivo maniacale di molti poeti odierni, coscienti dell’essere stati esautorati d’ogni funzione, tanto da sentirsi destituiti perfino da quella autoriale che diventa una ricerca, non una una condizione attuale, sebbene labile ed estraniata: “quest’autore è solo/ un mio omonimo triste/ in cerca d’autore” (p. 28).
Il poema ininterrotto – che viene a coincidere con la vita- autobiografia in versi di un notomizzatore della contemporaneità, continuo intrecciarsi di vita e poesia, di destino e memoria, assume la configurazione di una citazione cronopuntuale dell’essere lunettiano, spazio del proprio definire, cornice a sé stante di una tensione verso l’Allegoria, verso una poesia che si fa Emblema, che svela la realtà mediante emblemi della verità, il mondo mediante una serie di stemmi.
Pura archeologia, la poesia illumina la progressiva inarrestabile perdita del senso che pian piano riveste ogni cosa del nostro presente, rendendo il mondo uniforme e inutile, esposto alla nevicata mortifera d’una condanna venuta a colpire l’umanità per la sua hybris.
Nulla della società eccitata, della costante accelerazione, della mobilitazione continua a cui sono costretti gli individui, si riscontra nel testo lunettiano, più incline a percepire il tramonto ormai plurisecolare di Roma, allegoria dell’Occidente, o dell’occiduo, pronto a eccepire lo stato di cancrena, lo stadio di una contaminazione radiomicotica universale (il fungo atomico e le sue scorie hanno invaso non solo l’immaginario ma anche il pianeta, ormai scarto di merci, residuo, cloaca aperta e visibile, discarica intercontinentale e oceanica).
Più che dell’eccitazione, Lunetta si interessa dell’incitazione alla stupidità universale, si volge sgomento all’assopimento delle coscienze, la misura di tutto è la catastrofe (rimando, per questo al testo di Alessandro Alfieri, Frammenti della catastrofe, Edizioni Noubs):
La catastrofe è  la sola misura di questo tempo
vilmente intemperante. Tout se tient.
Tout se tient. Le differenze
(nel lungo sfacelo
di un’epoca che neppure intuisce il suo tramonto
la sua fine) sono fumo negli occhi todavia
per chi lavora febbrilmente, misteriosamente
(paranoia di alchimisti medievali)
per
l’omogeneizzazione globale
:::eternità
dell’istante che varia e svaria per rimanere
sempre identico a se stesso.
E’ che Lunetta assiste alla fine di un secolo, più che alla nascita di un altro, alla fine del concetto di popolo e dunque al tramonto dell’ideologia marxista, e a tutta una serie di conquiste andate in sfacelo a cui egli non si rassegna. Rispetto ai testi precedenti, c’è meno ironia, meno vitalità, meno voglia di trasformare il mondo; il poeta si è arreso. Ci concede solo qualche sorriso:
Peccato, todavia, che nessuno possieda
la chiave della propria cella, al massimo forse
il numero del proprio cellulare.

LunettaMagnificat

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