Ai nostri giorni, la storia tende allo slogan, ovvero a coincidere con un’immagine – la figura sfuggente del potente – e con una frase alquanto icastica, tanto più semplice quanto più immediata e “popolare”, “democratica”, poiché accessibile a tutti. Di queste frasi efficaci ma prive di intelligenza fungono da cassa di risonanza le notizie ripetute fino all’inverosimile dai mass media, “titoli” da copertina, “slogans”, appunto, trascritti direttamente sui social (da Twitter a Facebook) che annunciano la novità.
Ogni potente viene identificato tramite la sua massima del giorno, forse nemmeno, perfino scambiato per un altro, troppo facile confondere slogan e facce. Non quello che compiamo o realizziamo, non l’azione progettata e risolta fino alla realizzazione, con tutte le conseguenze che ne scaturiscono, non un comportamento sono degni di memoria. Il nostro presente è un indefettibile ineludibile essere consegnati alla piattezza alla banalità alla mancanza di contenuti, perché la vita e il pensiero di un uomo non possono riassumersi in una sola frase, non riconducibile ai sentimenti, alla passione che l’animano, che l’accompagnano e la nutrono.
Tutto viene ridotto al minimo indispensabile. I potenti trascorrono senza lasciare alcuna traccia, consegnati a quanto di più labile si possa concepire, apparendo come ombre che svaniscono nel teatrino d’un aforisma, nella volgarità di un improperio, nella dabbenaggine di una minaccia, nella virulenza di una accusa, declinando ogni responsabilità quali marionette sull’impiantito di una scena che non concede luci, sentimenti, ragioni, motivazioni, scelte, ma solo l’estemporaneità di una battuta da commediante, da comparsa, l’agilità ridicola e grottesca di una piroetta da ballerina di terza fila. Se qualche decennio fa Andy Warhol sosteneva che anche un imbecille avrebbe avuto diritto in futuro a dieci minuti di successo, oggi si può affermare che anche il più potente uomo della storia viene seppellito nei pochi secondi che gli sono concessi per esprimere uno slogan, travolto dall’impietosa maliziosità di una storia che non ha più bisogno di protagonisti e che azzera, nullifica, perché ogni avvenimento possa sussistere, subito sostituito e cancellato da un altro, dal successivo e così via. Che possiamo dire dei nostri padroni? Non giudicabili per una frase, non condannabili né giustificabili se non per un errore di grammatica, non derisibili, forse solo soggetti a correzioni compassionevoli. La validità della storia è affidata ai correttori di bozze. Tutto questo è ordito dal presente a danno del passato e del futuro.
Il presente è assoluto, l’unico mondo, l’unico modo per essere. Si è all’istante. Ogni personalità che conta nella società forse non è portato a credere fino in fondo al proprio slogan, dunque non lo incarna. Ne deduco che ogni slogan, falso, segna la distanza tra l’uomo e la sua umanità, tra l’uomo e il suo fine. L’umanità si sta perdendo in una approssimazione all’impressione fuggevole della vita, a ciò che del presente fornisce l’illusione del movimento, dell’azione.
In verità tutto è fermo, è cioè allo stadio zero dell’impressione, dello sguardo furtivo, del piccolo furto che ciascuno può compiere del reale, tutti noi immobilizzati dall’istante, nel sempre dell’istante. Che cosa favorisce tutto questo se non l’illusione d’esserci? L’illusione d’esserci da valutare come uno slogan, appunto, come un’indeterminata e indefinita risposta al nulla di cui oggi abbiamo piene le tasche.