Archivi giornalieri: 27 febbraio 2012

UNA POESIA DI LUCIANO CECCHINEL per l’ALBERO DELLA POESIA


Al pez mael

 

al pez mael

su la còsta del bosc

tel stornir mataran

de la vèrta ‘l se cata

de òlta in tra mèd i vestì

tèndri de le zaresère

 

cusì dret, scur

al par an vècio intabarà

restà  par sbaljo

in tra mèz tante tosatèle

lidiére de recami

de vènt e de parfun

 

fursi ‘l se sènt

tel so èser ancora lu,

an putinòt fòra stajon,

gnanca pi bon de far tremar

ma solche de far rider

cor cévedi de fior

il pino solitario / sul crinale del bosco / nel frastornamento pazzerello / della primavera si trova / improvvisamente in  mezzo ai vestiti / teneri delle piante di ciliegio / così diritto, scuro / sembra un vecchio intabarrato / rimasto per errore / in mezzo a tante bambine / leggere di ricami / di vento e profumo // forse si sente / nel suo ancora essere se stesso / un fantoccio fuori stagione, / neanche più capace di far tremare / ma solo di far ridere / cuori tiepidi di fiori

Ma come si fa a scrivere una poesia così intimamente delicata? Così desolatamente disperata ma così esplosivamente poetica? Non so. Chiediamo scusa a Cecchinel di aver omesso segni importanti che purtroppo nel blog non siamo riusciti a inserire:  il punto sulla z di pez, al primo verso, e sulla z  di mez del quinto verso (z dolce, suono quasi della esse) un segno sulla d di de nel sesto verso, il puntino sulla z di zaresere al quinto verso, l’accento circonflesso sulla s di zaresere, (che quindi si legge sg) il puntino sulla z di mez al decimo verso , l’accento circonflesso sulla s di tosatele, il segno sulla d di lidiere al verso successivo, sulla di di de nello stesso verso, e sul de del verso successivo, e sulle d di de e rider al peultimo verso, di cevedi e di de all’ultimo verso.  

Luciano Cecchinel (Revine Lago, 1947), ha pubblicato  Al tràgol jért (1988), a cui sono seguite Senċ (1990) e Sanjut de stran (all’interno di In forma di parole, 1998). Una riedizione riveduta e ampliata de Al tràgol jért è stata pubblicata nel 1999 dall’editore Scheiwiller con postfazione di Andrea Zanzotto. Del 1997 la plaquette Testamenti, con un disegno di Vittorio Schweiger. Ha pubblicato anche opere parzialmente o totalmente in lingua italiana: le raccolte Lungo la traccia (2005) e Perché ancora / Pourquoi encore (2005) con traduzione di Martin Rueff e note dello stesso Rueff e di Claude Mouchard e Le voci di Bardiaga(2008).

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PROSEGUE IL VIAGGIO di LUCIANO TROISIO in paesi esotici


Ecco il seguito del viaggio di Luciano Troisio. Buona lettura!

Siamo partiti per andare dal fotografo, incerti se avremmo avuto subito le foto o se bisognava tornare il giorno dopo. Avevamo già percorso il viale d’uscita quando il Papua si è fermato, ha cominciato a gridare, ha fatto marcia indietro, ha caricato un altro connazionale più atletico, suo  amico, di cui non sentivo la mancanza. Arriviamo dal fotografo; intanto dalle colline si vedeva una brutta nuvola nera in avvicinamento. Entro nel negozio enorme, letteralmente colmo di frigoriferi e televisori, di quelli arcaici, ma anche un paio di piatti al plasma. Chiarisco che voglio il fondo rosso. Mi assicurano che c’è. Ecco il contiguo studio del fotografo: una stanza davvero straordinaria. Già ne avevo visto un altro in India. Indimenticabili: drappo bianco verticale, girandolo muta in rosso; all’altro muro, bianchissimo, da ambientazione tragica mediterranea-latina, ci sono tre attaccapanni, ognuno dei quali ha una camicia bianca, una cravatta e una comicissima giacca nera nelle taglie fondamentali. Nella fattispecie sincronica c’era uno stupendo fessacchiotto ventenne, forse abituato a starsene nudo con astuccio penico, già pronto con la giacca che gli stava di un male singolare. Ho estratto la macchina e ho chiesto il permesso di fotografare a mia volta il fotografo al lavoro. Un capolavoro. Sono stato così sciocco da non esigere anch’io almeno la giacca nera. Ci ho pensato dopo: ho perso davvero un’occasione unica, imperdonabile per un giornalista a fine carriera. Foto banalmente decente. Quando me la date? Tra 15 minuti. Allora, per non essere scortese con i miei oceanici accompagnatori, propongo di bere un caffè. Questi approfittano per portarmi nel locale più costoso: Bar Brasil, dove ovviamente loro non sono mai entrati. Parcheggiamo, vedo che non scendono e mi dicono non abbiamo soldi. Allora assicuro: vi offro io. Sono lieto che mi abbiano fatto scoprire questo locale non squallido.

Entriamo. Ci sono solo stranieri e due ragazze voluminose quasi bianche, che parlano portoghese. Bella frutta esposta, torte. Si mettono a confabulare con la cameriera, ben vestita. Ordino un caffè con bricchetto di latte fresco a parte (come puntigliosamente esigeva Cesare al Pedrocchi), loro ordinano due bottiglie di aranciata. Per mia educazione (dentro al collegio sono tutti estremamente educati, anche il bambino di sei anni), mi sforzo di conversare con loro, un po’ in inglese un po’ in portoghese; faccio loro varie domande su vari argomenti: che studi hanno fatto, di dove sono, cosa c’è da vedere, se ci sono chiese e palazzi antichi. Uno sostiene di essere un funzionario amministrativo, parla un po’ di inglese e un po’ di portoghese. Gli chiedo quante ore lavora. Risponde: sono jobless. Mi dice in tono beffardo che l’altro ha studiato dai preti. Poi dichiara che gli piaccio e che berrebbe una birra. Cioè oltre all’aranciata ordina una birra. Mi informo se conoscono nei pressi un internet-point. Vado a pagare: undici dollari. A questo punto l’altro si alza e mi dice che vuole una torta. Esita un po’, quindi ordina una mezza ciambella che gli viene consegnata in un sacchetto nero. Mentre pago altri tre dollari avevano già aperto la vaschetta della torta, nella divisione a unghiate l’avevano spappolata e trangugiata. Torniamo a prendere le foto, poi andiamo subito all’internet-point. Apro yahoo ma non riesco a leggere la mia posta. Notizie: le cinque banche italiane hanno passato lo stress-test, otto europee no. La borsa è negativa. Intanto gli altri due si mettono ad altri due computer. Dopo venti minuti ho finito, ma loro no; esco perché l’aria è irrespirabile, mi siedo nel portico quasi coloniale, passano varie persone, diverse tra loro, alcuni ragazzi mi salutano con gentilezza, altri sono invece strafottenti. Metà delle molte auto sono sontuosi Suv bianchi dell’ONU, oppure pik-up sempre dell’ONU. A bordo si riconoscono bianchi giovani, con occhialetti da funzionario lentigginoso nordico, abatini ignoranti che nella loro vita non sono mai stati così bene, nullafacenti, strapagati. Proteggono (da se stessa) la popolazione indigena che guadagna 50 cent. al giorno pro-capite. La nuvola nera si avvicina, comincia un diluvio. Intanto i due Papua piuttosto bifolchi (ma decido subito di non accennare nulla alla superiora) continuano a fare i loro comodi e mi inquieto: un comportamento strano. Non mi è mai andata a genio la compagnia di indigeni che si appiccicano agli stranieri (soprattutto Bali è piena di manzi locali che cercano di agganciare bianchi: lì la gente è molto più bella; difficile attaccare bottone con ragazze balinesi, per via del ferreo controllo sociale. Ci sono (prostitute) musulmane da altre isole, e parecchi gigolò giavanesi in trasferta, riconoscibili dai capelli lunghissimi e dalla magrezza. Le australiane zitelle creano molti posti di lavoro assai impegnativo). Dopo quasi un’ora entro e intimo di venir via, o minaccio di rientrare da solo. Torniamo nel diluvio: il papua mi chiede i miei programmi per domani (fossi matto).

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