Proponiamo alcune poesie inedite di Danilo Orlando. Enfant prodige, il cui talento è stato scoperto della poetessa Anna D’Isanto Di Camillo, Danilo ha vinto giovanissimo alcuni concorsi letterari, nel 1990, nel 1991, nel 1993. Nel 2000 a 19 anni ha pubblicato la prima raccolta: “Nel cielo brillò una stella” (Noubs). E’ ingegnere elettronico. I testi qui riportati riferiscono di una potente formazione classica, di una predisposizione naturale alla scrittura lirica, nonché una ricerca delle proprie radici in un costante colloquio con la propria terra, con la propria identità, la capacità di osservare con intelligenza la quotidianità, scavandone la profondità. Perché la vera poesia non dà mai nulla di scontato e soprattutto non ha a che fare con la banalità, con il facile sentimentalismo.
CASACANDITELLA
Casacanditella,
per colpa mia non sarai mai Tindari:
eppure ti ritrovo mite
ogni volta che torno,
immobile in volo
come la via del Falcone
che m’ha assegnato il destino
di peregrinatore costiero.
Per colpa mia non conosci
che parte del medio Appennino:
oltre supponi ci sia la fine del mondo
e che il mare sia solo un pertugio lontano
nel verde che ti si concede
quando l’aria è serena:
perdono.
LA BOLLA DEI TULIPANI
Amore,
dovremmo tornare
a fumare la pipa
con regolarità,
studiarne il fornello.
Perché la sigaretta
ha perso di sensualità
e potremmo darci
anche al commercio
illegale dei bulbi,
non per rilanciare
la bolla dei tulipani:
amore, potremmo
dare alla gente
nuovi bulbi oculari.
LA CROCE SUL PANE
Lo sento,
è il richiamo della croce sul pane:
sa di passato privo di trame,
di nonna che studia un ricamo
quando la stufa rovente che sbuffa
l’afflato di scorza d’arancia
riscalda la mano ferrata
che carda la lana che amo:
«Nonna mi fai un fiore col filo che avanza?».
Anelar la cruna della calma,
della speranza.
LA FRONDA
Amore,
soltanto amore è ciò che muove
questo turbinio di colore
delle vesti che indossa:
spazia dal mare alla cima dei monti.
Distese di mezze stagioni,
manti di fiori a protezione della roccia
che s’accalca come bastione:
protegge, cosa protegge?
Cercarle negli occhi le soluzioni alla continuità
dei profili scarlatti del trittico di vette
che termina dopo le colline
e le cave di gesso (per tracciare parole).
«Tu cosa proteggi?
Stringi una spiga di grano,
cosa nascondi?»
Libeccio che sferza le valli
in cerca dei portoni e di una piazza di porto:
del martello che pigia sul rame.
Stare sui monti e pensare alle onde del mare.
Rimani con me, non te ne andare.
Ecco i camosci,
non quelli d’oro quando pensi al formaggio,
quelli veri che nessuno ha mai visto
e che s’associano al nome di questa regione.
L’Abruzzo ha ragione, ha sempre ragione.
L’avviso
era nel rombo delle folate che si suppone,
guardando dalla valle la lontananza delle gole strette,
intersezioni d’opinione: meglio partire, meglio restare?
Osserva bene il verde che si butta nel mare e supponi
la risalita delle reti dei trabocchi sparsi lungo la costa
e noi alla deriva nel golfo:
«l’Abruzzo non ti dà speranza?»
E si volge alla cima dei monti.
La cresta porta in dono una croce,
dipana torrenti fino all’altare della piana,
per lavare le fatiche dell’ovile e del ciuco,
l’imprecare dei pastori e la cardatura dei sacchi di lana.
La fronda fluente che ci ripara,
allora non ci ripara dall’esitazione,
l’esalta.
PARQUET
Più brunir che pianto
stasera:
mi concentro
sul pero spaccato
su cui ho versato
molto caffè:
odor di parquet