Archivio mensile:gennaio 2016

LA BOLLA DEI TULIPANI DI DANILO ORLANDO


Proponiamo alcune poesie inedite di Danilo Orlando. Enfant prodige, il cui talento è stato scoperto della poetessa Anna D’Isanto Di Camillo, Danilo ha vinto giovanissimo alcuni concorsi letterari, nel 1990, nel 1991, nel 1993. Nel 2000 a 19 anni ha pubblicato la prima raccolta: “Nel cielo brillò una stella” (Noubs). E’ ingegnere elettronico. I testi qui riportati riferiscono di una potente formazione classica, di una predisposizione naturale alla scrittura lirica, nonché una ricerca delle proprie radici in un costante colloquio con la propria terra, con la propria identità, la capacità di osservare con intelligenza la quotidianità, scavandone la profondità. Perché la vera poesia non dà mai nulla di scontato e soprattutto non ha a che fare con la banalità, con il facile sentimentalismo.

 

CASACANDITELLA

Casacanditella,

per colpa mia non sarai mai Tindari:

eppure ti ritrovo mite

ogni volta che torno,

immobile in volo

come la via del Falcone

che m’ha assegnato il destino

di peregrinatore costiero.

Per colpa mia non conosci

che parte del medio Appennino:

oltre supponi ci sia la fine del mondo

e che il mare sia solo un pertugio lontano

nel verde che ti si concede

quando l’aria è serena:

perdono.

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LA BOLLA DEI TULIPANI

Amore,

dovremmo tornare

a fumare la pipa

con regolarità,

studiarne il fornello.

Perché la sigaretta

ha perso di sensualità

e potremmo darci

anche al commercio

illegale dei bulbi,

non per rilanciare

la bolla dei tulipani:

amore, potremmo

dare alla gente

nuovi bulbi oculari.

 

LA CROCE SUL PANE

Lo sento,

è il richiamo della croce sul pane:

sa di passato privo di trame,

di nonna che studia un ricamo

quando la stufa rovente che sbuffa

l’afflato di scorza d’arancia

riscalda la mano ferrata

che carda la lana che amo:

«Nonna mi fai un fiore col filo che avanza?».

Anelar la cruna della calma,

della speranza.

 

LA FRONDA

Amore,

soltanto amore è ciò che muove

questo turbinio di colore

delle vesti che indossa:

spazia dal mare alla cima dei monti.

Distese di mezze stagioni,

manti di fiori a protezione della roccia

che s’accalca come bastione:

protegge, cosa protegge?

Cercarle negli occhi le soluzioni alla continuità

dei profili scarlatti del trittico di vette

che termina dopo le colline

e le cave di gesso (per tracciare parole).

«Tu cosa proteggi?

Stringi una spiga di grano,

cosa nascondi?»

Libeccio che sferza le valli

in cerca dei portoni e di una piazza di porto:

del martello che pigia sul rame.

Stare sui monti e pensare alle onde del mare.

Rimani con me, non te ne andare.

Ecco i camosci,

non quelli d’oro quando pensi al formaggio,

quelli veri che nessuno ha mai visto

e che s’associano al nome di questa regione.

L’Abruzzo ha ragione, ha sempre ragione.

L’avviso

era nel rombo delle folate che si suppone,

guardando dalla valle la lontananza delle gole strette,

intersezioni d’opinione: meglio partire, meglio restare?

Osserva bene il verde che si butta nel mare e supponi

la risalita delle reti dei trabocchi sparsi lungo la costa

e noi alla deriva nel golfo:

«l’Abruzzo non ti dà speranza?»

E si volge alla cima dei monti.

La cresta porta in dono una croce,

dipana torrenti fino all’altare della piana,

per lavare le fatiche dell’ovile e del ciuco,

l’imprecare dei pastori e la cardatura dei sacchi di lana.

La fronda fluente che ci ripara,

allora non ci ripara dall’esitazione,

l’esalta.

 

PARQUET

Più brunir che pianto

stasera:

mi concentro

sul pero spaccato

su cui ho versato

molto caffè:

odor di parquet

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Il prestito interiore delle cose: la poesia di Silvia Colaiuda (di Massimo Pamio)


Vivacemente intimista, effusivamente riservata, capovolta ma impettita, la poesia di Silvia Colaiuda prende spunto da trascurabili eventi offerti dalla realtà quotidiana per una breve riflessione capace di costruire una piccola ma prelibata storia, con finale a sorpresa nella clausola. Grazie a uno spruzzo d’intelligenza soffiato sul volto del lettore, timido ma impulsivo scherzo, come quello di un fiorellino che quando meno te l’aspetti spunta tra le mani, nel disseminare messaggi in codice attorno a sé, illuminando segreti interiori, la poetessa ci insegna a osservare la vita dal suo punto di vista con garbo musicale, con leggerezza, con una nota di speranza: che “l’essere letta”, anzi “leggiucchiata” costituisca l’anticamera curiosa dell’amicizia e dell’amore. L’ironia delle cose, sparsa un po’ dappertutto, mette in crisi il meccanismo fin troppo semplice del giorno, forse, a conti fatti, la verità è la ruggine di un oggetto fatta malinconia, forse non resta altro che affidarsi alla superstizione delle cose, alla loro disillusa coinvolgente felicità.

Il talento di Silvia consiste nel dare vita agli oggetti, nel liberarli, nel conferire ai nostri piccoli incidenti quotidiani una labilità consensuale, che lega affetti e cose in una sostanziale mutua reciprocità, nell’affidare alle cose la superstizione della verità, l’ultima parola su quel che è.

Una voce fresca, scintillante, un’altra promessa della poesia che speriamo sia mantenuta fino in fondo, con costanza e disciplina da Silvia Colaiuda a cui auguriamo tanta fortuna! (Massimo Pamio)

 

SILVIA COLAIUDA

POESIE

 

Creazione

Quattro nuvole dai nomi curiosi

hanno pisciato sulla testa del mondo:

Malinconia, Inettitudine, Malaffare e Perseveranza.

Sorridettero di un pessimismo livido

agli sventurati inquilini dell’anno,

promisero l’intralcio del sole d’estate.

Poi il divino sputo a forma d’uomo

s’innamorò di costola sua metà

e promise d’essergli stampella

nei giorni a divenire delle comuni storte.

Dama

Su una scacchiera

di caselle bianche e nere,

un giovane inesperto,

ingenuo stratega,

si lascerà mangiare

da una dama.

Era solo un gioco.

Reclama

La gente seria non scrive poesie

gli scienziati eminenti non suonano violini

i politici comunisti non ballano caraibico!

I confini degli imbecilli non ospitano la libertà

l’indignazione dei borghesi non vince le guerre

e io rimango un’anima educata

un pensatore al netto d’idiozie leggere leggere.

Fondi arabici

Conto gli sbadigli

la radio decanta una canzone.

Ode alla macchinetta del caffè

sibilo antico di tostatura

ruggine figlia del fuoco

rituale mediterraneo

guarnizione indispensabile

di una buona giornata

superstizione di chicchi.

Sorvolo in quota

Ti consegno quella nuvola

che corre più veloce del tuo consenso

e ha la forma di un tulipano rosa.

Durerà così poco

Il traffico di una perturbazione

Il tempo di allestire il cielo.

 

Richiesta sorvolo sul cuore

chimera di un mondo nascosto

dal finestrino rotondo d’aereo

piramide dorata di nuvole ciccione

abito in via di “chi sa dove”

insieme a “chi sa chi”

Un invito

Parcheggio imbottito di macchine

riconosco la tua.

Strappo un giovedì dall’agenda

imprimo una calligrafia spigliata

messaggio capace di intendere e volere.

Pubblica affissione dal tergicristallo

volantino piegato senza firma d’autore:

“Confido nella tua complicità,

ore 20:00 Prima Loggia, un bacio”

Sorpresa anonima di un’effusione estiva

sintonia di un gioco in codice.

Rurale

Molliche di sapone

pizzichi d’acqua nella cascina.

Siediti a mangiare con me.

Prendi del pane nero,

parlami col tuo silenzio

più risolto e ospitale del mio.

Salta domande inutili

accelera il mio disordine

vivimi così.

 

SilviaColaiuda

DELL’AMORE di TINO DI CICCO


Siamo quasi tutti confusi; e lo siamo quasi solo perché non sappiamo cos’è il bene.

E’ il bene, infatti, che organizza la vera gerarchia nella nostra realtà, ed elimina così per sempre ogni confusione e ogni incertezza.

Chi in questa brevissima esperienza di tempo che chiamiamo vita, ha avuto la fortuna di provare l’amore, ha trovato il vero bene, e non è più confuso.

Il vero amore trascende però anche la persona che amiamo.

Amiamo quella persona perché in qualche modo testimonia il bene che non c’è, non perché realizza il bene assoluto che noi tutti cerchiamo.

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Si parte dall’amore per una persona, e poi, senza sapere perché, si guarda con benevolenza tutta la realtà. Come se una volta realizzati nel bene, non riuscissimo più ad assecondare la nostra natura animale.

Non cambia la realtà con l’amore, cambia solo il nostro sguardo; ma è il nostro sguardo che decide sulla realtà.

Da un certo punto di vista l’amore è la più inutile delle possibilità dell’uomo, anzi più che inutile sembra addirittura dannosa, perché distoglie le potenzialità dell’uomo dai “valori” del mercato.

Chi ama non sa che farsene del PIL.

E oggi (ma forse non solo oggi) è il mercato a decidere cosa vale e cosa non vale.

All’inizio il mercato decideva solo il valore della merce; ma poi piano piano ha finito per decidere anche il valore delle persone.

E se noi oggi siamo particolarmente confusi nelle gerarchie del bene, è proprio perché siamo sommersi dall’oceano dei beni-valori del mercato, e non riusciamo più a vedere la luna.

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Ma se l’amore prende il nostro cuore e lo libera dall’idolatria del denaro, del potere, del prestigio sociale, della tecnologia; se libera l’uomo dalla illusione del valore della sua identità, della sua volontà, della sua intelligenza, della sua potenza, della sua moralità, allora cade ogni confusione dentro noi.

Le nostre incertezze sono tutte figlie della nostra difficoltà a conoscere il vero bene.

Una volta che il caso, la fortuna, il destino, la grazia o come altro vogliamo chiamare quella stella che dall’altissimo del cielo ci orienta verso il bene, dovesse decidere per noi l’amore, avremo trovato finalmente l’unità di misura per vivere.

Il metro, il litro, il secondo e tutte le altre unità di misura che l’uomo ha trovato e troverà ancora, sono naturalmente una cosa buona per conoscere la materia. Ma la vera unità di misura per vivere è generata dal nostro amore.

Chi ama sa, anche se non sa niente di quello che gli uomini credono sia importante per vincere.

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Dall’amore nasce il perdono, non dalla volontà; dallo stesso amore nasce l’umiltà, non dall’intelligenza; e anche la conoscenza nasce da lì, non dai libri; da lì nasce la giustizia, non dal diritto; anche l’attenzione per gli altri nasce dall’amore, non dalla morale; dall’amore nasce la carità, non dalla nostra bontà; da lì nasce anche la generosità, non dalle religioni; sempre da lì la cura per la natura, non dall’ecologia; dall’amore nasce il tremore per la bellezza, non dalla filosofia estetica; da lì nasce il bene comune, non dai proclami della politica; e ancora da lì nasce il nostro mondo, non dall’esplosione del Big- Bang.

Solo dall’amore nasce la tenerezza del sesso, non dalle tecniche del kamasutra; dall’amore la felicità di respirare cielo, non dalla crescente potenza dei nostri telescopi; ancora da lì il sapore del pane, non dalle nuove tecniche di cottura; sempre dall’amore la sicurezza che noi tutti continuamente cerchiamo, non dalle scoperte della psicologia; ancora da lì il superamento della condanna del tempo, non dalle medicine che ci allungano la vita.

Nasce solo e sempre dall’amore la bellezza che toglie il respiro per questa vita, non dalla speranza di una vita migliore.

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TESTIMONI ESEMPLARI DEL NOSTRO TEMPO: ALDO BUSI E LUCIANO TROISIO di Massimo Pamio


Mi arrogo il diritto di parodiare l’Autore: Aldo Busi sta agli scrittori italiani (fuori i nomi, da Piccolo alla masnada di scrittori di genere, con il pacifico simpatico Camilleri in testa) come un uovo Fabergé sta a un uovo in camicia. All’ultimo scoppiettante monologante autodafé di Aldo Busi, “L’altra mammella delle vacche amiche”, 462 pagine edite dal sempre più raffinato editore Marsilio, affiancherò l’ultimo memoriale odeporico di Luciano Troisio, “Gli Dei scendevano tutt’intorno”, 522 pagine stampate da Cleup.

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C’è un patto tacito tra Busi e i suoi lettori, come tra un sacerdote e i suoi fedeli, racchiuso nel compito che è assegnato all’officiante di ripetere ogni volta liturgicamente la stessa funzione -sebbene con variazioni sempre più berniniane e sofisticate- mediante l’etimasia di una partitura teatrale senza scopo e senza un finale, rispettosa dei dettami gloriosi di cui si nutre la reciproca fede: dal tema dallo scrittore solitario in vestaglia che si lamenta dei suoi mali, al desiderio di evadere dalla torre d’avorio, torre descritta nei minimi particolari, dai ricordi d’infanzia all’omosessualità, dal rapporto tra lettore e scrittore all’etica, dall’ecologia all’esaltazione della vita contadina e agreste rispetto a quella cittadina, dall’attenzione per le figure femminili narrate attraverso una scrittura da pettegolezzo alla critica della società umana e capitalista in lunghe tirate indimenticabili: a pagina 332 ce n’è un esempio che i lettori dovrebbero imparare a memoria, la cui conclusione avverte: “Per me il paradiso è un’idea che ci si fa nell’inferno e, poiché sarebbe impossibile farsi un’idea qualsiasi di un inferno, è una cosa che non c’è ingenerata in una cosa di cui ci si fa un’idea erronea”. Assimilabile in alcune pagine all’umorismo giulivo di Paolo Poli, lo spirito finemente umoristico di Busi, cinicamente sadomaso, vorrebbe sortire l’effetto di scudisciate sulla mente e sul cuore, ma siccome il caro lettore è comodamente seduto in poltrona, lo scrittore potrebbe ottenere invece, beffardamente, lo stesso risultato della sua amata disarcionata Carolina Invernizio, appena l’offerta di caramelline da succhiare. A un lettore attento, invece, si rivelano per quel che sono, mentine al cianuro, frecce avvelenate da un’intelligenza singolare, autistica. Busi è via, verità, vita; o disgusta o si ama svisceratamente, non c’è un Busi di mezzo, i malaccorti critici che confabulano sul suo ultimo libro come di un’opera “scritta bene”, “interessante”, andrebbero processati e condannati a non leggere più Busi per il resto delle loro esistenze. Continua a leggere

LA STORIA CHE TENDE ALLO SLOGAN di MASSIMO PAMIO


Ai nostri giorni, la storia tende allo slogan, ovvero a coincidere con un’immagine – la figura sfuggente del potente – e con una frase alquanto icastica, tanto più semplice quanto più immediata e “popolare”, “democratica”, poiché accessibile a tutti. Di queste frasi efficaci ma prive di intelligenza fungono da cassa di risonanza le notizie ripetute fino all’inverosimile dai mass media, “titoli” da copertina, “slogans”, appunto, trascritti direttamente sui social (da Twitter a Facebook) che annunciano la novità.

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Ogni potente viene identificato tramite la sua massima del giorno, forse nemmeno, perfino scambiato per un altro, troppo facile confondere slogan e facce. Non quello che compiamo o realizziamo, non l’azione progettata e risolta fino alla realizzazione, con tutte le conseguenze che ne scaturiscono, non un comportamento sono degni di memoria. Il nostro presente è un indefettibile ineludibile essere consegnati alla piattezza alla banalità alla mancanza di contenuti, perché la vita e il pensiero di un uomo non possono riassumersi in una sola frase, non riconducibile ai sentimenti, alla passione che l’animano, che l’accompagnano e la nutrono.

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Tutto viene ridotto al minimo indispensabile. I potenti trascorrono senza lasciare alcuna traccia, consegnati a quanto di più labile si possa concepire, apparendo come ombre che svaniscono nel teatrino d’un aforisma, nella volgarità di un improperio, nella dabbenaggine di una minaccia, nella virulenza di una accusa, declinando ogni responsabilità quali marionette sull’impiantito di una scena che non concede luci, sentimenti, ragioni, motivazioni, scelte, ma solo l’estemporaneità di una battuta da commediante, da comparsa, l’agilità ridicola e grottesca di una piroetta da ballerina di terza fila. Se qualche decennio fa Andy Warhol sosteneva che anche un imbecille avrebbe avuto diritto in futuro a dieci minuti di successo, oggi si può affermare che anche il più potente uomo della storia viene seppellito nei pochi secondi che gli sono concessi per esprimere uno slogan, travolto dall’impietosa maliziosità di una storia che non ha più bisogno di protagonisti e che azzera, nullifica, perché ogni avvenimento possa sussistere, subito sostituito e cancellato da un altro, dal successivo e così via. Che possiamo dire dei nostri padroni? Non giudicabili per una frase, non condannabili né giustificabili se non per un errore di grammatica, non derisibili, forse solo soggetti a correzioni compassionevoli. La validità della storia è affidata ai correttori di bozze. Tutto questo è ordito dal presente a danno del passato e del futuro.

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Il presente è assoluto, l’unico mondo, l’unico modo per essere. Si è all’istante. Ogni personalità che conta nella società forse non è portato a credere fino in fondo al proprio slogan, dunque non lo incarna. Ne deduco che ogni slogan, falso, segna la distanza tra l’uomo e la sua umanità, tra l’uomo e il suo fine. L’umanità si sta perdendo in una approssimazione all’impressione fuggevole della vita, a ciò che del presente fornisce l’illusione del movimento, dell’azione.

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In verità tutto è fermo, è cioè allo stadio zero dell’impressione, dello sguardo furtivo, del piccolo furto che ciascuno può compiere del reale, tutti noi immobilizzati dall’istante, nel sempre dell’istante. Che cosa favorisce tutto questo se non l’illusione d’esserci? L’illusione d’esserci da valutare come uno slogan, appunto, come un’indeterminata e indefinita risposta al nulla di cui oggi abbiamo piene le tasche.

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